Mattioli 1885 manda in libreria La città più cupa del mondo, raccolta di quattro testi di Fëdor Michajlovič Dostoevskij sulla città di Pietroburgo, a cura di Verdiana Neglia. In questa occasione, proponiamo la prefazione scritta da Paolo Nori.
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Un mistero, quasi
Insieme a Puškin e Gogol’, Dostoevskij è, probabilmente, il principale artefice del mito di Pietroburgo; l’ha definita (in Memorie del sottosuolo) «la più astratta e premeditata città del globo terracqueo» e (nell’Adolescente) «la più prosaica e insieme la più fantastica città del mondo». Qualche tempo fa mi è capitato di mettere in fila una serie di giudizi su Pietroburgo che si trovano in Delitto e castigo: «Faceva un caldo terribile, non si respirava, la gente spingeva, c’erano dappertutto impalcature, mattoni, calce, polvere e quel tanfo tipicamente estivo ben noto ai pietroburghesi».
«L’odore insopportabile che proveniva dalle bettole, che in quella parte della città erano particolarmente numerose, e gli ubriachi che gli capitavano di continuo sotto gli occhi, benché fosse ancora giorno, completavano quello spettacolo triste e desolante».
«Accanto a certe trattorie da quattro soldi, nei cortili sporchi e maleodoranti delle case della Sennaja, e ancor di più nelle osterie, si ammassavano operai e straccioni di ogni genere».
«Per strada faceva ancora un caldo insopportabile, non era caduta neanche una goccia di pioggia da tanti giorni. Sempre la stessa polvere, mattoni, calce, sempre la stessa puzza dalle botteghe e dalle bettole e gli ubriachi, gli ambulanti finlandesi, i vetturini malconci».
«Ma anche qui non si respira – dice la mamma di Raskol’nikov – anche per strada sembra di star chiusi in una stanza senza finestre, Dio mio, che città!». «Sono convinto che a Pietroburgo ci sia un sacco di gente che cammina parlando da sola – dice Svidrigajlov, – una città di gente pazza. È difficile trovare una città in cui vi siano influssi tanto negativi, violenti e strani sull’animo umano».
«Eppure, questa città così strana, a Raskol’nikov piace, in certi momenti: gli piace, per esempio, quando cantano al suono dell’organetto in una fredda sera d’autunno, buia e umida: soprattutto quando è umido e i passanti hanno tutti un’espressione malata e un colorito verde pallido».
Non viene esattamente voglia di andarci; eppure Dostoevskij, quando non è costretto, dai debiti o da una condanna a morte poi tramutata in dieci anni di esilio, a rifugiarsi altrove, non può fare a meno di Pietroburgo. Ci arriva a quindici anni, ci vive fino alla morte in venti diversi appartamenti in affitto (l’elenco completo degli indirizzi si trova in appendice a Evgenija Saruchanjan, Dostoevskij v Peterburge, Leninzdat 1970), e non sa nemmeno lui spiegarsi bene il perché. «Fin dall’infanzia, smarrito, scagliato, quasi, a Pietroburgo, ne ho sempre avuto come paura: Pietroburgo, non so perché mi è sempre sembrata un mistero, quasi».
Questa antologia di Verdiana Neglia raccoglie articoli su Pietroburgo scritti in due diverse fasi della vita di Dostoevskij: immediatamente dopo il suo straordinario esordio letterario (nel 1846, con Povera gente) e immediatamente prima dello straordinario successo degli ultimi anni della sua vita; successo dovuto, oltre che agli ultimi grandi romanzi, a una rivista interamente scritta da lui, Diario di uno scrittore, dalla quale provengono i primi pezzi di questa antologia. Leggendola, mi è venuto da pensare che Dostoevskij, oltre che tutte le cose che di lui sappiamo, è uno dei più straordinari talenti comici della sua generazione (e che generazione) e quando sono arrivato alla polemica con il collega giornalista moscovita che ha preso in giro il primo pezzo di questa antologia (Piccoli quadretti), ho pensato che, se fossi un contemporaneo di Dostoevskij, mi guarderei bene dal polemizzare con lui. Buona lettura.
Paolo Nori