Il motore del mondo: “L’amore, che puttanata!, buona per le riviste patinate che si leggevano dal parrucchiere! L’amore era un belletto passato sulla nostra maschera mortale; cos’altro facciamo se non mascherare la corruzione in beltà? Sono le nostre vite, dopotutto, e ne disponiamo come meglio crediamo. In culo ai benpensanti.”.
Domande postume: “Sa, quando c’è un morto ammazzato, cerco sempre di mettermi dal punto di vista della vittima, per capire: perché io? Già, la prima questione è: perché lui?”.
Amare verità: “Vede, la cognizione del dolore corrisponde alla cognizione del mondo; un grande scrittore ce l’ha insegnato e nulla ne farà recedere il senso.”.
È in libreria Belletti e il Lupo di Paolo Scardanelli (Carbonio editore 2024, pp. 200, € 17,50). Al centro della narrazione vi è il commissario Alvise Belletti, figura emblematica dell’uomo etico kierkegaardiano, il cui incrollabile senso del dovere lo porta a confrontarsi con le ombre più oscure dell’animo umano.
Scardanelli intreccia sapientemente due casi criminali che mettono a dura prova il protagonista: l’omicidio di Andrea Costa, un carpentiere metallico con una doppia vita, e quello di Loredana Talarico, giovane modella calabrese assassinata in circostanze misteriose. Attraverso un’indagine serrata e piena di colpi di scena, Belletti si muove in una Milano degli anni ’80, descritta con tinte fosche e atmosfere metropolitane intrise di nebbia e corruzione.
Il romanzo esplora temi profondi come il conflitto tra l’etica e l’estetica, il peso del dovere morale e la lotta tra giustizia e potere. Belletti incarna l’uomo etico, dedito alla ricerca della verità e al servizio della giustizia, in contrapposizione a personaggi simbolo dell’uomo estetico.
La scrittura di Scardanelli è densa e riflessiva, ricca di riferimenti filosofici e letterari che approfondiscono la psicologia dei personaggi. Le citazioni da Kierkegaard, Nietzsche e altri pensatori arricchiscono la narrazione, conferendole una dimensione esistenziale che va oltre la mera trama poliziesca.
Il punto di forza del romanzo risiede nella complessità del protagonista. Belletti non è solo un investigatore determinato, ma anche un uomo alle prese con drammi personali che accentuano il suo isolamento e la sua lotta interiore. Questa profondità emotiva rende il personaggio autentico e umano, permettendo al lettore di immedesimarsi nelle sue sfide morali.
Belletti e il Lupo è una riflessione sul ruolo dell’individuo di fronte all’ingiustizia e alla corruzione, un’affermazione dell’importanza dell’integrità personale in un mondo dominato dall’ipocrisia e dall’indifferenza. Scardanelli offre una critica incisiva della società contemporanea, mettendo in luce le dinamiche di potere che spesso ostacolano il trionfo della verità.
In conclusione, il romanzo di Paolo Scardanelli è un’opera intensa e coinvolgente, che combina magistralmente suspense e profondità filosofica. È una lettura consigliata a chi apprezza i thriller psicologici e a chi cerca una narrativa che faccia riflettere sui grandi temi dell’etica e della giustizia.
Carlo Tortarolo
#
In fondo siamo dei sopravvissuti; ai nostri destini, ai nostri doveri.
Quando, in seguito al dovere imposto dalla morale cristiana, la nostra vera natura trabocca dalla sfera etica, ecco che la dimensione estetica impera, scorrazzando libera per i pascoli del sentire.
Nessun potere può distoglierci da noi stessi. Lo sappiamo bene, ecco la necessità dell’etica a fungere da stopper, da tappo. In fondo quello che ci aspetta è un mare molto profondo nel quale siamo costretti a scendere se vogliamo essere universali. Perché è questo, essere universali, ciò a cui dobbiamo ambire.
Così Alvise Belletti da Erba aveva deciso d’intendere la sua esistenza. Sin da piccolo: doveva avere sei anni, era il primo giorno di scuola. Il maestro dai ricci capelli arruffati e spruzzati di bianco, dal lungo collo che fuoriusciva dal colletto, d’una magrezza davvero particolare, gli aveva affidato un compito; come ai suoi compagni. Alvise ricordava ancora perfettamente quel momento e quelli che seguirono: il maestro aveva assegnato agli alunni dieci righe da mandare a memoria; doveva essere una poesia, forse del Pascoli; gli spazi tra le parole gli apparivano come uno sterminato mare che doveva imporsi di attraversare. In quei momenti aveva compreso che il dovere sarebbe stato il suo movente. S’era ripetuto le parole che componevano la poesia con furia quasi ossessiva, durante la cena in famiglia, e dopo, rigirandosi nel letto insonne. Alle cinque s’era levato e, davanti alla finestra ancora buia, mentre fuori la notte volgeva il suo ultimo sguardo sulla terra addormentata, aveva continuato a ripetere ossessivamente le parole del compito che gli era stato assegnato. Ecco, questo lo status del commissario Alvise Belletti.
Era il più giovane commissario capo della Polizia di Milano; era stato nominato a soli trent’anni. La sua determinazione, che da molti era presa per caparbia ostinazione, al punto che il suo soprannome era “il mastino”, l’aveva fatto notare dal questore e poi dal prefetto che l’aveva nominato.