Mentre i lettori generalisti sono avvinghiati alle ginocchia della sterile madre della letteratura mainstream, soprattutto nel periodo Strega, l’editoria indipendente lancia strali di radicalismo antimoderno attraverso romanzi che si pongono come classici moderni. Non è un caso che mi trovo a parlare dell’ultima perla uscita da Carbonio Editore, ovvero In principio era il dolore. Un Faust di meno di Paolo Scardanelli. Autore già apprezzato e conosciuto con il suo esordio L’accordo. Era l’estate del 1979 uscito ormai quasi tre anni fa. Come spesso mi capita è proprio rimestando nelle torbide maree di opere al macero e altre che sono del tutto ignorate che trovo le gemme della “letteratura marginale”, di cui Scardanelli è un alfiere a sua insaputa. Per marginale non intendo qualcosa di periferico o trascurabile, bensì sotto questa mia etichetta-ombrello faccio ricadere tutte le opere che esplorano i confini metatestuali, che si pongono ai margini dell’editoria convenzionale e che sfuggono a qualsiasi criterio di catalogazione.
Abbiamo un romanzo faustiano, ma anche rocker, postmoderno e in maniera sofisticata anche antimoderno, abbiamo un inno barocco e per dissonanza un growl eretico, c’è la patina esoterica e allegorica, e tuttavia la epifanica volontà di trascendere i costrutti simbolici. Scardanelli in questo romanzo, che reputo un capolavoro, si pone come scrittore sfacciato, autoritario, insomma. Un padrone della penna. In questa storia sulfurea, i cui fumi della dannazione goethiana fanno lacrimare gli occhi dei lettori, Scardanelli scrive con una prosa personalissima dove incastona brani musicali e dissertazioni filosofiche messe in bocca a personaggi stralunati. Come si suol dire, sembra un romanzo che non ha subito un processo di editing, ma nudo e crudo appare sugli scaffali delle librerie così come è stato concepito dall’autore. Non è una mancanza dell’editore ma forse la costatazione che non si poteva operare cambiamenti nel romanzo. È evidente che il ritmo delle frasi, dei dialoghi pseudo-americaneggianti e al contempo sofismi d’alta scuola, e in generale la trama compositiva del testo sia un qualcosa di intoccabile, perché ogni parola è perfettamente bilanciata nell’arazzo-storia di Scardanelli, e ogni modifica ne altererebbe il risultato in maniera perpetua.
La trama eclettica potrebbe essere la rivisitazione in chiave colta e accademica di un bestseller alla Dan Brown, di cui espongo rapidi parallelismi. L’indagine del poliziotto-filosofo, i corpi trucidati disposti a formare simboli da non riportare, accademici immersi in spirali oscure etc. E poi, insomma, nel 2022 saprete comunque trovarvi una sinossi in rete. Il sito dell’editore è un ottimo punto di partenza. Se vi interessa la trama sapete cosa fare. La cosa che mi ha colpito di più del romanzo è la sua stratificazione culturale che si basa su vari artefatti retorici e citazionistici ma anche attraverso la destrutturazione di altri topoi appartenenti a generi inglobati da Scardanelli. Così, di primo acchito, ho apprezzato i tasselli che ricordano il respiro mitteleuropeo che da Goethe passa fino a Musil al cospetto di una generazione di uomini senza qualità, la ridicolizzazione del romanzo giallo, l’operazione di cut-up biblico-poetico in cui si intravede una venerazione letteraria John Milton, Edmund Spencer, William Blake, Samuel Coleridge, e perché no, un autore del catalogo Carbonio come Colin Wilson. Del resto i patti tra poveracci e diavoli (di nome Marylin nel romanzo di Scardanelli) sono accordi tra outsiders. In definitiva Carbonio Editore con In principio era il dolore. Un Faust di meno, di Scardanelli ci ricorda che i premi letterari sono inutili perché la letteratura che ti fa sanguinare (Paolo Nori, Sanguina Ancora) non si trova ovunque, ma per caso come la serendipità di Horace Walpole, padre del romanzo gotico. Genitore atavico di tutti noi freaks dal cuore dannato.
Cristiano Saccoccia
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L’Eternità è un lancio di dadi; credi di poterti inscrivere nel cerchio dell’eterno ritorno, ma è solo un’illusione. Una cazzo di illusione. Così come il nostro transitare.
Il prato era ricolmo di margherite. Si stendevano a perdita d’occhio. Mi sospingevano verso l’eterno. Mentre vagava errabondo l’animo mio. Al fondo stava la Conoscenza. Così almeno credevo.
– Cosa t’aspettavi? Streghe multiformi e spruzzi di zolfo? No, caro mio. Quello è per il volgo. Non per i Consapevoli. No.
– Ok, ma un campo sterminato di margherite… – Rifletti, uomo, rifletti… l’essenza è nell’assenza. – Di cosa, di grazia?
– Del principio – vagamente, roteando il pensiero nell’aria.
– Che coesiste con la fine?
– Sì… – sempre più vagamente.
D’un tratto apparve sul fondo un altare di diaspro.
– È quella la nostra meta?
Il diavolo non rispose. Arrivati che fummo: – Stendi la sinistra. Tieni, trafiggiti solitario.
Così feci impugnando il diadema cristallino durissimo e appuntito che mi trovai nella destra.
– Affonda!
Così feci. Il tavolo s’illuminò di azzurrognola luce diffusa. Celeste. Diabolicamente semplice. Come all’apparenza le nostre vite. Così tristi e inutili, se non rischiarate dal bagliore dell’assoluto. Brilla per me, o stella polare, indicami la via. Della Conoscenza, Vera e profonda. Assoluta.
Quindi fu notte e mi ritrovai accanto al corpo caldo di Loredana. Fu notte e silenzioso abisso.