È considerato da molti l’unico continuatore di quella commedia all’italiana dal sapore provinciale e un po’ agrodolce con una sana spruzzatina di ispirato neo-realismo, che ha avuto quale massimo esponente l’altro grande toscano Mario Monicelli. Parliamo di Paolo Virzì, apparso fedele al suo “credo” sin dal primo film di esordio a soli trent’anni, La bella vita, in ciò quindi distinguendosi da altri pur talentuosi registi nostrani che ogni tanto paiono un po’ perdere la bussola, inseguendo velleitarismi o seduzioni più grandi di loro.
Il percorso cinematografico di Paolo Virzì è stato infatti sotto certi aspetti esemplare.
Nel 1995 ottiene un notevole successo di cassetta con Ferie d’agosto, amaro apologo di matrice classista ambientato nell’isola radical chic di Ventotene , lì dove si trova il carcere in cui morì l’anarchico Bresci. Questo importante tema verrà ancor meglio ripreso e approfondito nel successivo Caterina va in città, che rimane a tutt’oggi il suo indiscusso capolavoro, anche nella drammatica crudezza del messaggio finale che marca la vera differenza di casta – non certo di bandiera – tra le persone.
Sul finire degli anni Novanta firma i riusciti Ovosodo e Baci e abbracci, anche se, stranamente, solo il primo avrà il successo che si merita. Un vero peccato, perché quei due giorni nel vecchio casolare adibito a improbabile allevamento di struzzi esotici è geniale, tanto nel soggetto quanto nella resa, e ci ricorda moltissimo nelle sue irresistibili dinamiche quella italica miscela di cinismo e generosità del Natale abruzzese proposto nel mitico Parenti serpenti del suo maestro per antonomasia.
Nel 2001 assistiamo a una pausa creativa con My Name is Tanino, poi tutto si aggiusta giacché nel 2003 esce il citato Caterina va in città con un peraltro straordinario Sergio Castellitto.
Si vede che a un film stupendo deve necessariamente seguirne uno meno ispirato perché, così come era successo con My Name is Tanino dopo il notevole Baci e abbracci, anche stavolta al bellissimo Caterina va in città succede, nel 2006, quel poco rifinito N. Io e Napoleone, che ha tuttavia il pregio di rivelarci l’emergente talento di Elio Germano.
Nel 2008 richiama con se la sua attrice degli esordi Sabrina Ferilli, per regalarle il ruolo della direttrice fanatica e frustrata di quel call center descritto come un vero e proprio girone dantesco nel fortunato Tutta la vita davanti, ma si capisce che è solo la rampa di lancio verso il “suo” film più voluto e più cercato e di evidente sapore autobiografico, quello della finale consacrazione. Così nel 2010 esce e trionfa sia su pubblico che su critica quel La prima cosa bella, che venne indicato tra i possibili candidati per l’Italia all’Oscar. In effetti era davvero un gran bel film – titolo tratto da un vecchio successo sanremese di Nicola di Bari e dei Ricchi e Poveri – e azzeccatissima la consueta ambientazione livornese che, questa volta, ci riporta ai gloriosi anni Settanta. Anni che poi tanto gloriosi, per la variopinta famigliola protagonista, non paiono essere stati.
La vicenda è quella che vede ritrovarsi al capezzale di una madre, davvero straordinaria sotto tutti i profili, i vari superstiti di una famiglia assai sui generis descritta in flashback sin dal suo principiare. Quel ritrovarsi finale, all’inizio solo in senso fisico, si trasformerà in un “ritrovarsi” in un senso più profondo, soprattutto nel figlio, interpretato da un bravissimo Valerio Mastandrea.
Sul fronte attori, va ancora una volta sottolineata la prova strepitosa di Stefania Sandrelli, che aggiunge l’ennesimo prezioso trofeo alle sue già tante straordinarie figure femminili cui ci ha abituato in questi cinquanta anni di commedia. Quel film fu anche il trampolino di lancio per la moglie di Virzì, ovvero Micaela Ramazzotti. Quando lo vidi per la prima volta, confesso mi convinse poco la scelta di due attrici così diverse tra loro per la centrale figura della madre coraggio di seduttivo aspetto. Non solo le due prescelte non ci azzeccavano punto tra loro per quanto riguarda il lato fisico, ma mi pareva che il personaggio della matura madre interpretato dalla Sandrelli si muovesse con una recitazione troppo più intelligente e arguta di quella proposta dalla giovincella, bonazza dal cuore d’oro, che manco sapeva cliccare il giusto tasto del telefono dell’avvocato presso cui lavorava. Poi, da quando lo rividi in DVD, questa sensazione non si è più ripetuta. È probabile, ho pensato tra me, che anche io come tutti “loro” non avessi “capito” le tante risorse poliedriche di quella straordinaria e irripetibile mamma cui è davvero impossibile non affezionarsi.
Dopo il grande successo di pubblico e di critica, arriva un parziale ridimensionamento con Tutti i santi giorni. Quindi, nel 2013, Il capitale umano, il primo che per tecnica di sceneggiatura si discosta dall’abituale stile cui ci aveva abituato, anche se i temi ricorrenti sono sempre quelli più cari all’autore. Già, perché Il capitale umano è anche un thriller che cattura lo spettatore grazie a quella particolare realizzazione in tre parti, pronta a ripercorrere la medesima vicenda vista dai diversi occhi dei tre principali protagonisti. Protagonisti che recitano tutti molto bene se è vero quanto ha detto qualcuno, ma hanno comunque tra loro una vera punta di diamante nella ricca moglie, confusa e infelice, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi. È lei a firmare, a mio parere, forse una delle migliori prove femminili attoriali dell’ultimo decennio e non mi riferisco solo all’Italia. Valeria Bruni Tedeschi la troveremo, coprotagonista insieme a Micaela Ramazzotti, anche nel successivo La Pazza gioia (2016). A tutt’oggi risulta essere l’ultimo film veramente riuscito di Virzì prima dell’inutile parentesi internazionale di Ella & John, presentato con scarso successo alla Mostra del cinema di Venezia del 2017, e del seguente Notti magiche, dove alla buona idea di partenza non corrispose adeguata realizzazione.
Davide Steccanella