La meccanica dei corpi di Paolo Zardi (NEO Edizioni, 170 pagine) è un libro per così dire deflagrante, ruvido, inesorabile, senza che mai dai cinque racconti se ne possa estrarre un lieto fine. A Zardi ripugna il livello di civiltà degradante dell’era dei consumi, il caos delle città dove non trova più spazio alcun sentimento vero che non sia una atroce lotta per la sopravvivenza, deplora il declino di ogni relazione umana mai così fragile, esposta a tutti i venti di una continua disillusione, dove latitano da tempo all’orizzonte speranze, idee, dove ogni fede nel l’uomo è perduta, dove impegno politico e valori comuni sono inafferrabili suppellettili di un passato sepolto, al contempo Zardi sembra indicarci un sotto storia meno contingente, tutto invece incentrato sulla volubilità e fragilità dei corpi transienti in un tempo che trascorre come divorasse gli esseri viventi, che li sgomina con la Morte non si sa come quando né perché, incentrato sulla blasfemia del tempo sulle stesse strutture mentali, sull’automatismo atavico per cui l’uomo, il genere umano, mai è stato sottratto al suo consueto riorientamento che è in relazione appunto col suo essere mortale e cosciente di ciò, al suo non aver saputo mai emendarsi conseguente, mai davvero liberato dai suoi vizi capitali e più endemici: ambizione, avidità, paura, egoismo. Vivere diventa nelle pagine del Zardi un dilemma che si confronta con un tempo che è lineare, uguale a se stesso, se ad ogni circumnavigazione terrestre non ci mostra altro che un’Umanità dirotta, disperata, per niente rinsavita, recidiva nei suoi errori metastorici, inerme in un sistema costrittivo tutto teso al profitto che ne determina ogni volta il suo fatale decadimento, ciò adesso per via della sovrappopolazione globale, per via della minaccia della Tecnica e dell’inquinamento prodotto dall’abuso dei combustibili fossili, dell’incidenza fatale dello sfruttamento indiscriminato delle risorse e del ricorso alla Guerra cui ancora l’umanità si fa determinare e il cui esito nucleare potrebbe profilarsi oggi più che mai esiziale, disastroso sul decorso stesso del pianeta Terra all’interno del Sistema Solare.
Vivere dentro questa epoca è arduo, c’è uno spreco immenso di energie, disparità enormi, un assottigliarsi crescente del buon senso, la mortificazione di chi lavora come giornalista che per esistere e conservare il suo posto comunque dequalificante dovrà inventarsi una storia di sana pianta suscitando così una catena di eventi drammatici, c’è il vecchio Armando (il miglior racconto, quello più toccante che ricorda le atmosfere de l’Umberto D. di De Sica) cui muore il cane meticcio di una vita, solo, vedovo, con un figlio disperso, forse morto, una figlia che ha troppo da fare per accudirlo, la sua decisione di farla finita, smettere di nutrirsi, spegnere ogni connessione col tempo, con lo spazio, evaporare la coscienza senza odi rancori né rincrescimenti, avvertire però una presenza, un ronzio di api continuo nelle arnie che dovrebbero essere disabitate, un cane nuovo che gratta alla sua porta, l’enigma, il ricordo delle parole della moglie indistinguibili allora sul letto di morte, giorno dopo giorno questo riflettere come deponesse ogni casella nell’ordine richiesto da un puzzle, questo solipsismo fatto di ricordi e gioie sbiadite, di affetti come risucchiati nella nebbia, finché Armando comprende per la prima volta quelle ultime parole della moglie prima che fosse spirata, sussurrate al suo orecchio, il suo avvertirlo di qualcosa che lui non aveva allora inteso, poi il sogno rilevatore sarà decisivo, serve a spronarlo in un ultimo gesto da eroe, un viaggio in treno, poi con le corriere, col suo nuovo cane, zaino in spalla, ci sono i due amici che si ritrovano dopo venticinque anni, le distorsioni del tempo che si riflettono nella fisionomica dell’altro irriconoscibile, l’esperimento metapsichico che conducono ubriachi, un viaggio nel tempo che si realizza solo per uno di essi, quello meno suggestionabile dalle fandonie, un viaggio che non può non vuole essere comunicato, tanto vale la parola, vana e labile in un mondo incredulo su tutto, c’è una vita coniugale spezzata da un atto efferato, un uomo che cambia nome e personalità dopo la riabilitazione, una donna affranta che non sa più chi sia suo marito, finché dovrà intervenire lei stessa per riordinare la dinamica convulsa della vita, rischiando la propria vita, l’ultimo racconto il più lungo ci mostra un uomo di successo dei giorni nostri, direttore di banca, con affari segreti, moglie e due figli, una vita fatta di acquisti, Suv e televisori, iPhone, abbonamenti a Sky, soldi e rispettabilità, in ufficio in banca uno feroce ed infame coi subordinati, a pecora però coi superiori, il classico esemplare di un medio borghese retrogrado ed avvilente nel suo tram tram quotidiano, senza cultura né vere ambizioni. Finché la sua vita sarà scombussolata da una proletaria rumena più giovane di lui di dieci anni, inserviente nelle pulizie nella stessa banca dove lui è il direttore, questa donna presto diverrà la sua amante, il suo assillo, il salvacondotto che potrebbe tirarlo fuori dallo squallore di una vita fatta di calcoli ed astuzie, la fragrante novità di una sessualità a tutto tondo, il fascino che il sesso e la conclamata riscoperta della sua oscenità producono in un’anima vuota fredda calcolatrice, prettamente borghese. Con uno scotto finale da pagare, perché parte stessa della dinamica dei corpi, perché ogni gesto comporta una conseguenza, spessissimo sì: un esito che non s’era previsto così fatale.
Il senso recondito di questo libro lo diremmo misterico ed al contempo misericordioso, colmo di pietà per l’uomo, viene in mente chissà perché una frase dai Quaderni di Emil Cioran: ‘Guardando le bestie feroci al Jardin des Plantes: ciò che è la gabbia per loro, il Tempo lo è per noi. Ognuno di noi è rinchiuso dietro a sbarre più o meno visibili.’