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Parente o delle strutture elementari della parentela

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I. Nel 2007 Carla Benedetti e Massimiliano Parente duettarono a stretto giro sulla questione dell’editing. Iniziò la prima su L’Espresso del 23 febbraio: “La figura emergente dell’agente letterario-editor sta rivendicando il suo diritto a pregiarsi, quasi come un co-autore, dei libri a cui lavora. E per quanto i ‘suoi autori’ ne siano felici, è evidente che qui c’è una figura che tenta di spossessare l’altra. E con questo decreta anche cosa dovrebbe essere la scrittura: mero artigianato. Basta con la pretesa ridicola di inventare o di creare! D’ora in avanti scrivere sarà cosa da ‘sartoria letteraria’, come dice in modo illuminante Vittorio Sgarbi”. Rispose il secondo su Il Riformista del 28: “Brava, Carla. Intorno ho sentito un silenzio di tomba. Hanno fatto tutti finta di niente, la questione è talmente cruciale che fanno orecchie da mercante, perché mercanti sono […]. Ma se i critici hanno tradito una missione, e gli editor servono a vincere il Premio Strega, a produrre il libro di successo, e lo mettono sul biglietto da visita, gli scrittori editati cosa cazzo fanno? Altra faccia della stessa medaglia, Carla. Evidentemente ci stanno. Ci stanno perché sono narratori autoriali e d’intrattenimento e non Scrittori […]. Ho visto decine di amici rovinati dagli editor, falcidiati in nome del lettore, e che evidentemente non sono mai stati Scrittori. Avendo scelto l’editor, e non me e la mia lotta, li ho ripudiati anche come amici […]. Per questo con i miei editori ho sempre messo le mani avanti, rispondendo seccamente a ogni minimo tentativo di editing, riduzione o semplificazione ‘Scusate ma devo durare almeno dieci secoli, non dieci mesi’”. E il giorno stesso chiuse il duetto la prima, sempre su Il Riformista: “Caro Massimiliano, passano i libri al setaccio per liberarli di ogni mostruosità, cioè di ogni sconcertante novità che un’opera può presentare, delle arditezze dell’invenzione. Ne escono spesso fuori romanzi che sembrano modellati su di un formato unico […]. La ‘scrittura assistita’ rischia di essere un grande livellatore di differenze che piega le voci di ognuno verso uno standard comune, e quindi di reprimere ogni forma di insubordinazione allo spirito del tempo”.

“Con la scusa estetica di mantenere l’integrità del testo“Con la scusa estetica di mantenere l’integrità del testo (la stessa ragione vera, ma vista al contrario, per cui due anni fa ho mandato affanculo un grosso editore che voleva pubblicare La Macinatrice1.
Siccome non andò bene poi con Elisabetta Sgarbi, l’1 novembre 2008 sempre sul Il Domenicale Parente confezionò un mazzo unico in chiave parodica: “Grazie a una talpa forse presa in prestito da un hacker di Dagospia, abbiamo avuto la possibilità di intercettare alcuni epistolari tra editor e autori italiani” – e giù, con tanto di foto del singolo destinatario, una serie di letterine l’ultima delle quali a se medesimo, firmata con nome e cognome dell’editor Bompiani con cui aveva litigato, Eugenio Lio: “Caro Parente, quando al telefono ti ho detto alzando anche la voce ‘non puoi permetterti di parlare così a me, io sono un editor Bompiani’, quella specie di pernacchia prima del clic era un’interferenza, vero? Cordialmente”. Prima, l’unico citato per esteso era stato Antonio Franchini, allora editor della narrativa Mondadori, con una letterina a Mauro Corona, mentre tra gli altri citati col solo nome spiccava in prima posizione Mario Desiati, editor junior della Mondadori, con una letterina a Saviano: “Cavo Vobevto, Gomovva sta andando benissimo, lo hanno pveso tutti per [sic] un vomanzo, solo gli amevicani lo hanno insevito tra [sic] i vepovtavge [sic], ma solo perché [sic] lovo sono pignoli e non hanno avuto né Enzo né Pievpaolo. Ma io pvepavevò un numevo di Nuovi Avgomenti dove affevmevò che un vomanzo, un blog, un vepovtavge [sic] sono la stessa cosa […]. Ti abbvaccio vorte vorte [sic], Mavio”2.

Parente cambia marcia il 5 aprile 2009, su Libero: “Chi sono gli innominabili dell’editoria, quelli che nessuno sa chi sono, cosa fanno, e che tuttavia, nella loro invisibilità, assumono un ruolo sempre maggiore? Si chiamano ‘editor’, non ne parla mai neppure Dagospia” – e allora fa lui i nomi: “Nell’Italia di oggi gli editor sono sfrenati perché non c’è nessuna distinzione tra arte e non arte, e è tale la soggezione indotta che vengono debitamente ringraziati alla fine di ogni romanzo […]. Ho visto editor migliorare decine di libri inutili, e devastare libri belli. Basti leggere, tra i giovani, Occidente per principianti, di Nicola Lagioia, che ho seguito, da amico, passo passo in fase di stesura, finendo (io o il romanzo originale) sconfitto nella consulenza da Paola Gallo della Einaudi che ha trasformato la seconda parte in un road movie per vendere di più almeno metà libro3. Lagioia, in compenso, è diventato editor di minimumfax, dove si minimufaxizzano i libri che non arrivano già minimumfaxati. La collana Stile Libero ci ha marciato per anni, sia con i libri ‘collettivi’ di Wu Ming, sia con centinaia di autori interscambiabili. Lì si tentò anche la strada del romanzo collettivo editor inclusi, con Babette Factory le pagine venivano lette e montate in riunioni settimanali insieme con Paolo Repetti e Severino Cesari […]. Al sottoscritto è capitato un editor della Bompiani che, scontrandosi con la mia intransigenza di fronte al vano tentativo di censurare Contronatura, è sbottato ‘Come ti permetti di parlarmi così? Io sono un editor della Bompiani!’, e ho dovuto anche spiegargli che il rumore che aveva sentito subito dopo non era un’interferenza, ‘era una pernacchia, Eugenio’. Dopo mi è stato chiesto anche se volevo ringraziare qualcuno. A onor della Bompiani alla fine il romanzo è uscito com’era (o non sarebbe uscito), anche grazie a un rispettoso e colto editor di nome Alberto Cristofori […]. Se siete lettori veri, evitate i libri dove alla fine vengono ringraziati gli editor. Quanto agli scrittori veri, come Aldo Busi, il comportamento da tenere di fronte agli editor è semplice: ‘L’unica cosa che conta nello scrivere è lo scrivere, è essere come vuoi tu e cosa vuoi tu’”.
La Benedetti intanto specifica il suo proprio pensiero su L’Espresso; e però, fresca evidentemente di Contronatura4.

Parente il 19 luglio su Libero, fatto notare che due anni prima con la Benedetti aveva organizzato su Il Riformista “due interventi congiunti contro lo strapotere degli editor”, s’impenna: “come sarebbe a dire che ‘non è mai il giudice’? E al posto dell’opera c’è un ‘operato’? […] Va benissimo editare l’‘operato’ di Scurati o la Agus o Pulsatilla o Faletti, mentre gli scrittori di opere d’arte hanno sempre saputo cosa facevano, provate a vedere cosa ne pensavano Kafka, o Joyce, o Gombrowicz, o Beckett, o Céline, o Nietzsche o Gadda o D’Arrigo di qualsiasi intervento esterno […]. È divertente che lo svuotamento della consapevolezza artistica dell’autore venga dalla critica più vicina a Antonio Moresco (fondatore del Primo amore), un grande scrittore che, correzione di refusi a parte, non si è mai fatto modificare un testo da nessuno, e lo ha sempre dichiarato […]. Forse però i tempi stanno cambiando e si arriverà all’elogio delle giurie, considerando che Tiziano Scarpa, da sempre accusatore, insieme alla Benedetti, delle lobby culturali e delle terribili ‘macchine’ editoriali e politiche di vario tipo, e anche lui membro del Primo amore, non solo ha vinto lo Strega, ma non si è peritato di rivolgere i complimenti al secondo arrivato Antonio Scurati. Ancora più divertente è che il sottoscritto Parente, sopravvissuto all’attacco di decine di editor della Bompiani, tempo fa mandò alla Benedetti un testo (un intervento contro Massimo Onofri) che doveva uscire sul Primo amore e fu anticipato da Libero [25 gennaio 2009], e se lo vide rispedito proprio dalla suddetta emendato e corretto dall’inizio alla fine, sotto forma di consigli non richiesti e per paradosso su un testo già pubblicato. Alla mia protesta allibita la critica militante rispose […]: ‘che bisogno c’è di dire ai critici perché non vi togliete dai coglioni? Non puoi scrivere toglietevi di mezzo? Che bisogno c’è di scrivere coglioni?’, e per non farmeli tagliare, e essere più affettuoso di quanto sarebbe stato Céline, fui costretto a risponderle gentilmente di non rompermeli”.
I tempi comunque stavano cambiando anche per Parente, a giudicare almeno dal cammeo che in La casta dei radical-chic (Newton Compton, aprile 2010) dedica a Franchini, nel frattempo promosso direttore della narrativa Mondadori: “È un simpatico scamiciato con gli anelli, un bullo del Bronx ma erudito, simpatico e ospitale che mi fa fare tutto il giro turistico del palazzo fino al lago, mi offre un caffè, mi chiama ‘Massimilia’’, e lì mi sento finalmente a casa, anche perché, penso, senza lago nessuna casa editrice è davvero fica, altro che giardino pensile della Bompiani. Quindi? Pubblicherò con Mondadori? Non credo, perché sono un attaccabrighe, perché in quel lago per esempio mi ci affogherebbe Saviano e il suo fatturato, perché scrivendo su Il Giornale e attaccando la sinistra passo per berlusconiano e la Mondadori è di Berlusconi, il nemico di Saviano, e le cose in Italia sono sempre molto complicate”5.
Con Franchini andò bene, così bene che i “Ringraziamenti” finali de L’inumano (Mondadori, marzo 2012, 277 pp.) suonano: “Umanamente grazie a A.[ntonio] F.[ranchini], il primo umano che ha saputo riconoscere il primo inumano”.
Così tutto è pronto per la retromarcia finale, del 7 gennaio scorso su Libero: “Ne ho conosciuti molti, disinnescati tutti. Proprio Bompiani me ne mandava a sciami, uno dopo l’altro, io li rispedivo al mittente schiacciandoli come zanzare, e l’ultimo, il più vicino alla direttrice, che si chiamava Lio […]. Finché non passai a Mondadori e Antonio Franchini, il direttore editoriale, non mi presentò lui: Mario. È stata la fine di Parente mangiatore di editor. All’inizio lo guardai con diffidenza. Napoletano, a volte con il pizzetto e a volte no, ex-avvocato, in realtà Mario mi conquistò subito. Mario è il mio editor ideale perché coglie sfumature della mia scrittura che neppure io colgo. Non cerca di imbrigliarmi, anzi, mi fa notare come un certo giro di frase a pagina x non sia del tutto parentiano, che si può parentizzare di più. Mario conosce la mia opera meglio di me, si accorge di discrepanze temporali o di senso impercettibili […]. Con Mario ho lavorato a L’inumano, il romanzo che ha chiuso una complessa trilogia la cui scrittura mi ha impegnato per dieci anni. Con Mario ho appena finito la correzione de Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, il mio nuovo romanzo che uscirà il 28 gennaio. Inutile dirlo bellissimo, un altro capolavoro”6.
A parte che sarebbe il secondo editor in gamba dopo Cristofori della Bompiani, è da sperare almeno che Super Mario gli abbia fatto ridurre ulteriormente la mole rispetto ai precedenti, mentre disperati si rimane che Kafka, o Gadda, o Beckett, o Joyce, o Nietzsche, o Céline non abbiano incontrato l’angelo che li kafkizzasse, gaddizzasse ecceterizzasse…

II. Nel corso di una mia indagine su Il domenicale, mi ero soffermato sul numero speciale estivo del 9/16 agosto 2008, una silloge di racconti tra i quali spiccavano per il loro risvolto porno quello di Massimiliano Parente e quello di Stefania Bergamini. Da un rapido riscontro in rete, trovai che il primo era già comparso quasi un anno prima nel n. 1 della rivista Satisfiction con il titolo La scrittrice: “Non ho mai creduto che fosse una ragazza reale prima di incontrarla, un anno di messaggi e telefonate senza mai poterla incontrare, e fare il duro non funzionava, se sparivo io spariva lei, tutte le volte che mi sono messo nel ruolo del maestro con l’allieva, dello scrittore con l’aspirante scrittrice, ha vinto lei, sono tornato io sui miei passi falsi. L’unica tortura che potevo infliggerle nella distanza, prima di conoscerla, prima di finire qui, è dirle che non sarebbe mai stata una scrittrice […]. La prima volta che mi legò mi chiese ‘Sei sicuro? Io non mi fermerò’ e le risi in faccia. […] Ho solo il cazzo, la testa, un tronco ingrassato, non ho più braccia né piedi né gambe, e li sento ancora, dei formicolii lungo le linee degli arti che non ci sono, non so come abbia fatto di volta in volta a amputarmeli […]. I veri maschi, qui dentro, vogliono solo fottere la bella ragazza mora che hanno rimorchiato, non pensano a altro, non si accorgono di me. Lei dice ‘Inculami’ e perdono la testa, e io come loro, perfino adesso. Quanto è troia, penso sempre a quanto è troia, lo pensa ogni maschio di ogni donna che desidera, e tuttavia, per ferirla, le dico che non sarà mai una scrittrice. […] La cosa paradossale è che non l’ho mai scopata. Né prima né dopo, né da uomo né ora. Lei, che non sarebbe mai stata una scrittrice, l’aveva detto, che quella forma in cui mi aveva trasformato prima o poi avrebbe attratto qualcuno. Per questo si è sempre presa cura del mio pezzo di corpo depilandomi, oliandomi, lubrificandomi, rendendomi levigato, la testa rasata e liscia, il ventre rasato, il pube glabro. Quando il bestione iniziò lei mi diceva ‘Fammi sentire come urli, maiale’. Lo diceva anche ai maiali veri, con la sua voce dolce, come una mamma parla al suo bambino per tranquillizzarlo, parlando ai maiali che macellava vivi […]. Continuo a dirle ‘Non sarai mai una scrittrice’. La sua voce di bambina mi sussurra ‘Smettila. Continua a dettare. Sono io che scrivo. Sono una scrittrice’”.
Se Parente è il più noto tra gli autori della silloge, Bergamini è di gran lunga la meno nota. Il suo racconto, Quel fantastico giovedì, a sopratitolo reca: Storie porno da un catalogo di spudorate esplicitezze, a suggerire una serie ventura di cui non restano tracce. Accontentiamoci: “L’idea la eccitava. La eccitava il teatrino che lui avrebbe allestito solo per lei. Glielo aveva promesso come si promette un anello nuziale. Non le importava di quel che sarebbe stato in quel letto in una stanza segreta e ignota. Non le importava cosa avrebbe subito o cosa avrebbe imposto. Era in bilico su una porta spalancata nel buio, sul dolore, sulla morte, il piacere ‘tirato fino in fondo’. Ma chi può dire che il buio, il dolore, la morte, il piacere ‘tirato fino in fondo’ siano davvero una vergogna, una maledizione, uno spettacolo da cui fuggire… ‘Sparsi nel cortile c’erano pezzi di maiale. La testa, il collo e le due zampe anteriori erano finiti accanto al fienile. Lo stomaco, le budella, e le altre interiora invece erano proprio al centro in una pozza di sangue coagulato…’ Entrano nella stanza bordello […]. Lui, le prende la mano e la guida, si ferma, le sorride, come quando fai felice un bambino e diventi la sua stella. E ora. Sulla porta, sorridenti, i due si salutano, con sulle guance baci formali, accogliente la finta femmina-finto maschio agghindato da finta troia. Lei, col cuore in gola, riceve la sua razione di falsa benevolenza e un piccolo ridicolo bicchiere colmo di liquido rosso e dolciastro. Beve guardandosi intorno vedendo che non ha più l’attenzione delle due figure già nude, lui avvinghiato alla finta femmina-finto maschio-finta troia che, tenendogli la testa gli affonda il cazzo in gola con metodo tranquillo e avvolgente, lui, rannicchiato come un grosso feto a succhiare quel cazzo privo di identità […]. Posa il bicchiere, si spoglia e va a guardare gli occhi del suo amore, quasi toccandoli con i suoi, gli tira indietro i capelli, lo guarda cercando qualcosa di fondamentale, in quel momento di lei donna e non donna, esclusa inclusa da un finto maschio e da una finta femmina. Esaltata o umiliata da una situazione che dà la precedenza al cazzo potente della finta femmina e al cazzo moscio del finto maschio. Il trans lo tiene fermo e gli affonda nel culo colpi potenti, lentissimi, poi veloci, bagnati, abile fottitore, gli tiene le cosce aperte, come a una fidanzata che deve soddisfare. Colpi forti, bagnati di saliva e crema spalmata prima sapientemente… ‘Il maiale nel prato, squartato forse da un cane di grossa taglia, era incinta, il minuscolo feto avvolto nella placenta era buttato da una parte. A lei, bambina, avevano incuriosito gli occhi della scrofa, si era avvicinata e le aveva cercato qualcosa dentro lo sguardo. Niente. Né dolore, né stupore, né odio. Niente di niente. Due palline nere e cretine…’ Come ora, gli occhi di lui persi e vuoti a esprimere nulla. Solo quel cazzo nel suo culo solo sente quel cazzo nel culo quel cazzo nel culo. Sorride la finta femmina-finta troia, sorride con finte labbra e finti occhi e finte guance: ‘Ti piace stronzo? Ti sei ripulito dalla merda? Lo vuoi tutto? Ti sfondo il culo tifottotifottotifotto’ […]. Spettatrice non pagante deve adornare lo spettacolo con gesti che lui si aspetta, cerca, chiedendo senza chiedere, aspettando che sia lei a decidere il proprio piacere. Sa che l’orgasmo di lei è la sua storia. E intanto si fa fottere dal fottitore trans instancabile e ascolta lei vicino alla bocca che gli regala l’atto finale: ‘L’altro giorno ho dovuto guardarmi in uno specchio mentre ne succhiavo uno veramente bello. La mia bocca non l’avresti proprio riconosciuta. Aperta come un sacco. Come un serpente che inghiotte l’agnello. E il cazzo tutto dentro, in certi momenti fino alle palle, roba da chiedersi dove trovassi lo spazio, faceva perfino una gobba di fianco alla guancia. Elastica la carne delle labbra. Perfino più del culo. Si distende, capisci, si deforma, diventa larga da far paura. Mi piace guardarmi mentre faccio un pompino. Mi piace farlo e al tempo stesso mi godo lo spettacolo e gratis, e quando schizza bello tiepido e mi cola dalle labbra, ne recupero un po’ sulla punta della lingua…’  Lui tira indietro la testa e ha un orgasmo violento, il cazzo del trans ancora nel culo. Lei lecca piccole gocce del suo piacere”.
Meglio direi l’oscura scrittrice, la quale in riquadro è presentata così: “vive a Bologna, restaura quadri, lavora nei pub, prepara ottimi cocktail, ogni tanto scrive racconti. Ha pubblicato il suo primo racconto nell’antologia Pronti per Einaudi, 2007, Coniglio Editore”.
Il suo primo però non era un racconto, e neanche un raccontino, bensì un non-racconto, come ben spiega il titolo Storiella di un nulla scritto: “Non andava. Era troppo vicino alla realtà perché potesse andare bene. Spense il computer ricordandosi solo un attimo dopo aver abbassato l’interruttore, che non aveva salvato il testo. Oh, beh pazienza. Forse era stato il critico che aveva nell’inconscio a dirle che non valeva la pena salvarlo. Una storia era una cosa, una cosa reale, ed era lecito pensarla così specialmente quando se ne otteneva in cambio un compenso in denaro, ma da un altro punto di vista più importante non era affatto una cosa. Non era un oggetto come un vaso o una sedia o un’automobile. Era inchiostro su carta, ma non era l’inchiostro e non era la carta. Le si chiedeva spesso dove prendesse le sue idee e per quanto lei minimizzasse quelle domande istigavano invariabilmente in lei un vago senso di nausea, il sospetto di non essere del tutto onesta. Era come se la gente credesse nell’esistenza di una DISCARICA CENTRALE delle idee come si vorrebbe che esistesse un cimitero degli elefanti o una leggendaria città tutta d’oro e fossero convinti che lei celasse una mappa segreta per andare a fare rifornimento. Ma lei sapeva che non era così. Ricordava dove era stata quando le erano venute certe idee e sapeva che uno spunto dipendeva spesso dall’aver visto o intuito un nesso singolare tra oggetti o avvenimenti o persone che non erano mai state minimamente in relazione tra loro, ma più di così non sapeva fare. Perché dovesse vedere questi nessi o dovesse desiderare di ricavarne successivamente dei racconti era un mistero. Da ora non c’era il racconto. Il suo cervello era vuoto e liscio come una palla di vetro. Non aveva nulla da raccontare all’umanità tutta che impaziente aspettava di provare un’emozione. Che aspettassero. Ora non aveva niente da dire”.
Nelle note biografiche in coda a Pronti Per Einaudi – antologia di narrativa di tendenza, di Bergamini si legge: “vive a Bologna. Restaura quadri. Ha scritto per sé migliaia di pagine senza mai volerle pubblicare. Questa è la prima volta”. 
Il 27 ottobre 2007 l’antologia fu recensita su Il Domenicale dal redattore Davide Brullo: “Un giorno d’aprile mi telefona Massimiliano Parente, autore non del tutto ignoto ai quattro lettori di queste pagine, e mi dice, tirannico, scrivimi un racconto […] c’è un amico mio che vuole pubblicare un libro che verrà intitolato Pronti per Einaudi, una, parole sue, ‘antologia di narrativa di tendenza’ […]. A fine luglio compare la fata turchina, nelle sembianze di una stupenda, fragrante femmina di nome Maria Sole Abate. In quattro e quattr’otto questa amazzone ti sistema in falange una ventina di ragazzotti, sinuosi elfi che braccano l’ape regina, ti incide un’introduzione che più stilosa non si può, e confeziona il tutto”.
Nella Prefazione di Abate vengono menzionati solo sette dei ventitré autori: “Dal racconto di apertura Manca solo il titolo del noto giornalista Luigi Mascheroni che riproduce una improbabile e per questo molto credibile riunione editoriale di un’ipotetica raccolta (anti)einaudiana, quale ‘miglior testimonianza del nostro tempo’ per far felici i sostenitori di una letteratura sociologica spensierata o pseudoimpegnata, al racconto dello scrittore e poeta Davide Brullo, Rettilario, che non mancherà di far parlare di sé forse non parlandone vista la complessità e la qualità artistica della sua poetica, un racconto biblico, come ogni impresa letteraria di Brullo, ai confini dell’umano, all’inizio e alla fine dei tempi. Due racconti emblematici nella loro diversità. Laura Sergio, affascinante e ineffabile scrittrice leccese, propone un racconto erotico che incarna una narrativa morbosa e tagliente, dove la lingua scandaglia l’ossessione con un’esattezza raggelata e fa a meno tanto delle svenevolezze di molta letteratura femminile quanto del kitsch di molta letteratura erotica, attraversando i cliché sessuali, possedendoli da dentro per lasciarsene possedere e spossessare. Un esordio interessante quello di Annalisa Casagrande, dove i sogni e i fatti dell’io narrante si susseguono mescolandosi in descrizioni percettive e sensoriali della sua Barcellona. Massimo Gardella ambienta il suo monoblocco narrativo in Cambogia, dove la sfida finale del protagonista contro la morte, politicamente molto scorretta, e ne siamo felici, comincia a essere preparata in un progressivo crescendo fin dalla prima riga.  Non mancano i racconti di scrittori già noti come quello di Marco Missiroli (Premio Campiello Opera prima 2006) e forse smentiscono il luogo quasi comune che i premi non premiano la qualità. La chiusura della raccolta è affidata al racconto brevissimo di Stefania Bergamini che in poche righe riesce a includere una profondità di visione decisamente toccante, che scavalca il minimalismo proprio sull’intensificazione di uno sguardo lucido, analitico, emotivo, e intimamente espressivo”.
Nel racconto di Mascheroni, ripreso tra l’altro su Il Domenicale accanto alla recensione di Brullo, a metà della riunione il consulente italianista, espresso giudizio negativo sull’antologia (“raffazzonata, improvvisata, inutile”), aggiunge d’emblée: “E poi questo Massimiliano Parente. Io non discuto la capacità di scrittura… il talento è innegabile, non voglio dire. La cosa fastidiosa semmai è l’invettiva rancorosa contro tutto e contro tutti, che non è semplice sfogo, o una posa. No: qui diventa qualcosa di sistematico e premeditato. Di più. Quando certe parole diventano fatto politico e certi intellettuali le seguono per le loro nevrastenie, be’ questo è un fatto grave, Signori. Capite: pubblicare un autore del genere può essere pericoloso perché lo si giustifica, rischiando di farne un personaggio storico”7.
Ma che c’entrava Parente, se non compare affatto in Pronti per Einaudi? Parente eminenza grigia?  Parrebbe di sì, a giudicare da un suo articolo su Libero del 12 agosto 2008, dove stigmatizzando la moda dei racconti antologizzati afferma: “Non sarà colpa della mia compagna Maria Sole Abate, sebbene c’entri anche lei eccome, mortacci sua, visto che ha curato l’antologia Pronti per Einaudi, e appena si è sparsa la voce sono apparse dal nulla decine di aspiranti autori […]. Il più tragico è stato Michelangelo Zizzi, il quale campa con una scuola di scrittura creativa e che chiamò perfino me per far inserire alcuni suoi protetti […]. La più divina è stata Laura Sergio, suonatrice di pianoforte e bellissima, così snob che sono dovuto intervenire io buttandomi ai suoi piedi con la scusa di estorcerle un racconto”8.
Il bello però doveva ancora venire: incrociando su google i nomi, a “Massimiliano Parente Bergamini” mi uscì la pag. 9 di Mamma. Romanzo d’amore (Castelvecchi 2000), dove Stefania Bergamini è la prima dedicataria! Allora la cercai in rete, e la trovai. Colta, curiosa, scombinata, in quattro e quattr’otto passammo agli scambi seri: così all’invio postale del Leviatano (Mimesis 2013) di Arno Schmidt tradotto da me, lei ricambiò con un paio di brevi prose sue via e-mail.
Nel frattempo in biblioteca mi ero procurato Mamma (una cinquantina di paginette tolti gli spazi bianchi), e già che c’ero pure il primo romanzo di Parente, Incantata o no che fosse (ES 1998, una sessantina di paginette tolti gli spazi bianchi)… e lì, a pag. 40, trovai uno dei pezzi inviatimi da Stefania: “Ieri notte sono uscita e sono andata al cinema, la sala era semideserta, davano un cartone animato. Mi sono seduta vicino a un ragazzo, in penultima fila. Durante il film mi sono sbottonata e ho allargato le gambe, ho fatto in modo che mi osservasse, che si accorgesse di cosa stavo facendo. Sotto la pelliccia di visone ero completamente nuda”!
Gliele suonai di pocosanta ragione: che bisogno c’era di copiare? Copiasse almeno qualcosa di meglio! La risposta fu sconcertante: il pezzo era suo, Parente l’aveva solo inserito. Restai sulle mie, sospettando che si trattasse di una seconda bugia per coprire la prima9. L’altra ipotesi però, che avesse detto il vero, lateva in me al momento in cui passai a leggere Mamma, una storiella a due, madre divorziata da un lustro e figlio incestuoso da sempre, con pochissimi dati contestualizzanti a reggere una serqua di [misf]atti porno. Lui vivacchia con “l’alibi di protrarre gli studi” (p. 26), frequenta saltuariamente una biblioteca “per cercare di finire la mia ricerca bibliografica, della quale non mi interessa nulla, so già che salterò alla sessione successiva, o a quella successiva ancora” (p. 30) – è insomma un universitario non certo di primo pelo. Anzi, un episodio ne svela l’età precisa: “Mi fa piegare dalle risate quando dice che forse si potrebbe vietare il diritto d’aborto nei mesi di gravidanza e renderlo obbligatorio dal quattordicesimo al ventiduesimo anno dal concepimento e portare in ospedale i propri figli per abortirli prima che siano disinnamorati della propria madre” (p. 77). Il figlio ha quindi ventun anni suonati, mentre l’età di lei è desumibile da una sua precedente confidenza: “Decisi di restare incinta da sola, senza parlarne con tuo padre, per averti a diciannove anni, per darti una mamma bella, e perché calcolai di poterti già scopare a trentacinque” (p. 46), ossia scoparlo sedicenne. Ergo, se lui va per i ventidue, lei ne avrà quarantuno. La pagina dopo, mamma gli ricorda “tutte le volte che io e papà ti portavamo a letto con noi […]: lui su di me, e tu tra di noi, sul mio seno, ed io ti tenevo stretto, e gemevo, e urlavo baciando la tua bocca in continuazione. E prima ancora, quando gli facevo pompini mentre ti allattavo, e lo eccitava da matti, questa cosa, vedere tu che succhiavi me e io che succhiavo lui, e c’era quel momento in cui lasciavi il capezzolo e mi chinavo su di te e dalla bocca della mamma bevevi tutta la sborra del papà”. Insomma lo allatta a pompini e lo svezza a scopate, in un movimentato ménage à trois che si evolve presto a stabile rapporto di coppia, con lei che gli succhia quotidianamente il pisellino e a giorni alterni lo inonda di popò (pp. 69, 80, 106, 113). 
Ma rebus sic stantibus, è impossibile allora che sia accaduto quanto segue: “Durante i pompini ho sempre fatto questi rumori con la bocca pazzeschi. Mi ricordo di una volta, ero ancora studentessa universitaria, e avevo la casa in comune con altre ragazze, e pensa che la mia stanza era in fondo al corridoio e dopo il salotto e la cucina, quindi lontana dalle altre e lontana dall’ingresso. Per fartela breve una notte feci un pompino a un mio amico, e una delle ragazze mi venne a bussare tutta imbarazzata chiedendomi se potevo fare più piano, perché si sentiva dalle scale” (p. 109). Impossibile appunto come res gesta a meno di non supporre una mamma ubiqua, e inspiegabile come historia a meno di non supporre che l’autore abbia inserito un pezzo estraneo senza saggiarne la compatibilità col resto.
Ciò mi ha spinto a ribaltare la graduatoria delle ipotesi, a dar credito cioè alla confessione di Stefania e a cercare se, oltre a questi due, ci fossero in Incantata e in Mamma altri imprestiti o plagi che dir si voglia. Ho cercato da solo (interpellata in merito, lei si è chiusa nel più assoluto riserbo), muovendomi tra due estremi, il minimo di quei due frammenti e il massimo di tutti i brani virgolettati, dove a parlare è appunto la partner femminile, che in Incantata è una separata quarantenne (“oggi compie quarant’anni”, p. 30) cui il giovane protagonista fa da gigolo. È un lavoro tuttora in corso, molto simile all’attribuzione in storia dell’arte, basato cioè sul contenuto e/o sullo stile. Due esempi riguardanti il primo: l’episodio sempre al cinema in cui mamma masturba il figlio sarà ancora di Bergamini; le scene di sevizie & mattanza porno di animali (dalle lumache ai porcellini), siccome ricorrenti nei romanzi successivi di Parente, andranno assegnate a lui, e così via.
A proposito di dipinti, l’unico elemento prospettico a creare in Mamma una parvenza di plot è il mistero dell’uovo di marmo (fortunatamente di colombo e non di struzzo, v. pp. 24, 62, 67) che viene sciolto infine: “Davanti alla incantevole Madonna con Bambino di [?] Guercino, in fondo alla navata buia, nella penultima cappella del braccio del transetto della chiesa seicentesca, mamma mi ha finalmente rivelato il segreto della foto in disguise che abbiamo in sala, lei come la Madonna ma con quella certa luce nelle pupille, e io, nudo tra le sue braccia, omologo al piccolo Gesù, io bambino dall’espressione beata eppure scomposta, quasi sorpresa in un fremito anomalo. Mamma non ha parlato, le è bastato mostrarmi l’oggetto del segreto per svelarne l’atto, l’uovo di marmo color corallo apparentemente mai visto eppure improvvisamente familiarissimo, e inumidirlo di saliva perché qualcosa cominciasse a combaciare con qualcosa, perché riuscissi a vedere all’improvviso lì, sotto l’angolo sfuocato della foto, ricomporsi dall’illusione una forma, un gesto, un movimento, una dilatazione abituale della carne, e nella navata forse non c’è nessuno quando ci abbracciamo e baciamo e mi sbottona cintura e pantaloni mentre con la mano può scivolare dietro e inserire nell’ano, insieme all’uovo di corallo, anche il senso di una rivelazione, nell’ano mio e del bambino, del Gesù bambino della foto, l’ano del piccolo dio che si richiude per poi riaprirsi subito nell’espressione di un piacere o turbamento psicologico o iconologico [?]” (p. 73). Ora, l’unica Madonna con Bambino del Guercino che non stia attualmente in un museo è quella situata nella chiesa del seminario di Finale Emilia, precisamente nella quarta e penultima cappella a destra10 – e Bergamini è bolognese sì, ma nel senso che abita in provincia di Bologna dalle parti di Finale11.
Quanto al suo destino di scrittrice, in bilico tra il sì e il no,  se esserlo cioè o meno, propenderei per il sì come del resto sembra fare Parente in http://www.youtube.com/watch?v=SJpP0PNeXmU del 30 dicembre 201012, salvo poi relegarla a semplice lettrice su Libero del 22 marzo 2012, quando deluso dalle recensioni al suo ultimo parto si chiede se “ha senso scrivere un capolavoro in Italia” e aggiunge: “Per fortuna i lettori che hanno letto il romanzo mi scrivono lettere incredibili, ne ricevo ogni giorno di bellissime, entusiastiche o scandalizzate, ma sembrano reagire a un altro libro rispetto a quello di cui leggete sui giornali. Ne cito una a caso, appena ricevuta: ‘È un libro che non mi fa stare bene, leggo e non sto bene da nessuna parte, lo prendo, impaziente di continuare, con ansia, angoscia, le parole arrivano a sassate a farmi sapere quello che non voglio. Contronatura era un verificare continuamente e pornograficamente rivelazioni estetiche, ossessionanti, rileggevo e rileggo sistematicamente le lettere di Madame Medusa, cercando un appiglio, un inizio o una fine, pagine rosse amate, nelle mani come una pietra dura, luccicante, perfetta. L’inumano è altro, come tenere tra le mani un bisturi, così, semplicemente, liscio, affilato, nudo, è quello che tutti siamo, che abbiamo dentro e che non conosco e non voglio affatto conoscere, è una camera quadrata illuminata da neon con un numero sulla porta, grigio e bianco dappertutto e tutto accecante, mi trasmette malessere e una intensa voracità nel continuare all’infinito la lettura, vorrei sapere cosa ne pensate voi, se sentite quello che sento io, sono curiosa dei vostri pareri, non l’ho ancora finito’. Non è un critico letterario, non è un giornalista, è una ragazza, si chiama Stefania Bergamini, abita a Bologna, e fa la cameriera in un pub”13.

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NOTE
1 Pp. 250-256 e 381. L’ultimo lido milanese è evidentemente la Bompiani, mentre l’altro, a giudicare dalla virulenza con cui fino ad allora l’aveva attaccata dalle pagine de Il Domenicale, era stato la Mondadori. Sotto Umberto Primo traspare nitido Alberto Gaffi. Come già constatabile, Contronatura ha lo stesso stile degli articoli (solo, vi abbondano le descrizioni porno e le tirate darwin-leopardiane sulla natura cieca – questo sia detto di un autore che si è sempre professato Scrittore, e mai giornalista), come lo ha La Macinatrice, che Parente aveva dedicato ad Antonio Moresco e la Benedetti di riflesso sciaguratamente recensito su L’Espresso del 3 giugno 2005 vaneggiando di “una lingua italiana che sembra appena reinventata, con tutte le sue possibilità dispiegate, sintattiche, paronomastiche”.

2 Desiati (ex-avvocato pugliese con erre moscia e pizzetto alterno), era all’epoca segretario di redazione di Nuovi argomenti, rivista diretta da Pier Paolo Pasolini e Enzo Siciliano fino alle rispettive morti, e amico con riserva di Parente, in quanto appartenente alla “lobby dei furbetti del quartierino”, come il Nostro chiamava su Libero del 3 aprile 2007 la redazione che comprendeva Colombati, Piperno, Saviano e Helena Janeczek (editor junior Mondadori pur ella, e unanimemente ritenuta l’editor di Gomorra). La riserva sarebbe caduta anni dopo, come testimonia la cronaca parentiana di un incontro di giovani scrittori apparsa su Il Giornale dell’1 maggio 2011: “gli scrivo un sms e alle dieci e mezza di sera è ancora lì, poverino, e mi risponde lapidario ‘Agghiacciante’. E pensare che quando ci vediamo da soli io e Desiati parliamo solo di cose intelligenti, lui di gang-bang e io della mia passione per Nicole Minetti”.

3 All’uscita del libro invero, su Il Domenicale del 13 novembre 2004 Parente obiettò a Lagioia di essere antioccidentale apostrofandolo: “Come è possibile che un cultore della Marvel non sia anche un cultore della Nato?”, e meritandosi il numero dopo una secca replica dell’ex-collega alla Castelvecchi.

4 Quello stesso 17 luglio Parente da Libero tuonò: “Per la Benedetti ‘l’arte’ è un concetto borghese, da abbattere, e dunque il romanzo è morto. Non ammette inoltre alcuna forma di elitarismo estetico”, spostando poi il mirino su Scarpa: “Poiché il romanzo è morto, se vincete un premio letterario, per esempio lo Strega anche se siete uno di quelli che ha sempre gridato al sistema infame e all’idiozia dei critici, siate felici”, e concludendo in terza persona: “Per Parente contano solo le grandi opere mentre il resto, che non resta, è l’effimero temporaneo e dentro ci finiscono critici, scrittori, giornalisti, nemici e amici. Per Parente il postmoderno non è mai esistito. Lo sapeva Flaubert, che di Augé non sarebbe rimasto niente, lo sapeva Proust, che di Hamp non sarebbe rimasto niente, lo sa Parente, che di Scurati non resterà niente, solo che i geni sono così generosi da citare gli altri per vezzo, per regalargli un briciolo di eternità”.

5 P. 240. Torna qui, mitigato, il veleno che Parente spruzzava da Il Domenicaledi sinistra (21 e 28 maggio 2005). 

6 Parente aggiunge in coda: “Federica Manzon, editor rivale di Mario e mia amica, alla quale regalo sempre ombrelli intonati alla sua biancheria intima, è gelosissima di noi”, ma neanche lui scherza, se di Carlo Carabba cela accuratamente le generalità, come del resto già fatto in un’intervista a La voce di Romagna del 15 settembre 2012: “L’inumano è uscito come ho voluto io. Piuttosto mi è successo di accogliere con entusiasmo delle osservazioni di Antonio Franchini, perché le ho trovate illuminanti”.

7 Mascheroni, giornalista tuttora in forza a Il Giornale, su Il Domenicale.

è nata nel 1983, vive a Lecce. Studia lettere moderne e pianoforte. Ha pubblicato su Nuovi Argomenti, Lo specchio della Stampa, L’immaginazione, Bluearticolo su Liberoamore non ha più denti.

9 Come bugia, o errore almeno, sospettavo fosse quel che aveva aggiunto, essere stato cioè Parente e non Abate ad avere steso il sunto dei sette racconti nella Prefazione all’antologia.

10 http://issuu.com/sandropalazzi/docs/chiesa_del_seminario. In realtà, parlare di transetto per essa chiesa è improprio, trattandosi piuttosto di semplice rientranza (cosa desumibile dal fatto stesso che nel testo l’ovulazione avviene nella navata unica, non già nel transetto dove sarebbe stato logico).

11 Qui appunto galeotto fu il Leviatanoanno di nascita: 1957. Considerato che Incantata uscì nel febbraio 1998 e Mammaepoca.

12 Dal minuto 8’30”. Parente ci torna il 5 marzo 2011 in http://www.youtube.com/watch?v=9V00MN-tTV4.

13 La presenza del “voi” esclude che si tratti di una e-mail a Parente, verosimilmente è un post in qualche blog o su facebook, usato poi scriteriatamente da Parente. Come mera ipotesi, attribuirei a Bergamini anche il seguente commento a firma “Stefania” del 22 luglio 2008 sul forum di Elisabetta Sgarbi: “Sono una lettrice di Massimiliano Parente, da molto tempo ormai. Ho letto quasi tutti i suoi libri e leggo ogni suo articolo. Non sempre mi trovo d’accordo con quello che dice (negli articoli evidentemente) ma è indubbio che sia uno scrittore geniale e unico (non nel suo genere perché di genere non ne ha, unico in assoluto, insieme a pochissimi altri). Quando ho scoperto che usciva con una casa editrice come la vostra ho gioito davvero, ero certa che avrebbe fatto il cosiddetto Boom. Sono andata immediatamente a comprarmi Contronatura. L’ho letto in cinque giorni e lo sto rileggendo ora lentamente per la seconda volta. È un libro annichilente. Un capolavoro. Un libro che va letto almeno cinque volte per capirlo, per andare a fondo in tutto ciò che dice e implica. Quindi come prima cosa volevo farle i complimenti per averlo pubblicato, davvero, e poi mi chiedo come mai non se ne parli in giro. Ho letto solo due recensioni sul vostro sito, mi pare. Le scrivo anche perché ho cercato i suoi primi romanzi ovunque, Incantata o no che fosse e Mamma, ma mi hanno detto che sono esauriti e non ripubblicati. Volevo sapere se per caso sono in corso di ripubblicazione o se verranno pubblicati. Mi sa per caso dire qualcosa? E mi potrebbe dire se e come è possibile avere un contatto dell’autore?”. Avendo fino ad allora Parente scritto in tutto quattro romanzi e avendo la mittente dichiarato all’inizio di averli letti quasi tutti, a qual pro girare per librerie a cercarne la metà?

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