Ne I veri nomi di Andrea De Carlo, il protagonista è un geniale sfigato di Quarto Oggiaro che svolta facendosi pagare da un editore finte interviste alle rockstar più inarrivabili. Lo conosco bene, era mio amico e lo rimane, solo che sta a Los Angeles dai primi anni Ottanta, allorquando dovette telare per motivi attinenti a quanto sopra.
Mi è tornato in mente leggendo nel Meridiano dedicato a Goffredo Parise Marylin dolce libellula umana, elzeviro originariamente apparso sul “Corriere” del 2.2.1983: “Nel ’61, a New York, l’appuntamento era (d’obbligo per lui) al Morocco, un famosissimo locale notturno del jet-set, non so se tuttora esistente o coperto, invece, da tavolacce di chiusura definitiva e triste come è avvenuto per il Colony. Era di poco ingrassato e indossava un completo di velluto nero con un fifi verde smeraldo. Per un istante pensai a De Pisis che egli certamente non conosceva. Mi porse le guance per due sciocchi bacetti che non ottenne e mi presentò una ragazza”, la Monroe del titolo con cui ballò sotto un bombardamento di flash, mentre “accanto al bar Truman Capote accennava, come se fosse su un minipalcoscenico, ad alcuni passi di tip-tap”.[1]
Nel 1961 Parise era stato in USA quasi un mese, a cavallo tra marzo e aprile, passando a New York i primi e gli ultimi giorni del grand tour. Peccato che da New York Capote fosse partito nell’aprile 1960 alla volta della Spagna, per tornarci solo nel gennaio 1962![2]
La fabula (o bafula o bufala che dir si voglia) è resa credibile nell’elzeviro dal fatto che Parise aveva incontrato Capote una “prima volta in Piazza San Marco ed egli sfoderò subito, in quel suo birignao, ahimè arricchito da una verruca in forma di minuscolo garofano all’angolo delle labbra, una battuta mondana: ‘Andiamo all’Harry’s Bar: fanno il più buon latte bollito del mondo’. Avrà avuto venticinque anni, io ventuno. Entrambi al nostro primo libro, ma il suo si chiamava Other voices, other rooms ed era infinitamente più famoso del mio. Era leggermente grottesco ma bellissimo, una strana apparizione di fata-uomo, un errore. We talked, e nulla più ma la sua gioventù di allora era secondo il mio parere, memorabile. Quella verruca e quell’odore di poppante! […] Nel ’51 beveva solo latte bollito dell’Harry’s Bar, nel ’61 già erano iniziate altre bevande, molto più micidiali di qualunque bevanda, oggi una sua fotografia mi è impossibile guardarla”.
Qui le date quadrano: Parise era allora di casa a Venezia, dove si erano trasferiti i genitori, e a Venezia Capote, lasciata Taormina il 10.6.1951, dopo una breve sosta a Roma visse tutto il restante giugno.[3]
Giosetta Fioroni poi, che conobbe Parise nel 1964, in un’intervista del 1990 ad Antonella Amendola ha corroborato il quadro: “Capote indossava una tenuta casual con tanto di scarpe da tennis. Goffredo, anch’egli molto attento all’abbigliamento, indossava una giacchetta di alpaca nera e una camicia immacolata che rendeva ancor più affilato il suo sofferto profilo”. La pennellata è però ovviamente di seconda mano ovvero di Parise stesso, dunque non vale come prova. Piuttosto, si potrebbe dire che l’incontro era comunque nell’aria, ossia nell’assonanza tra le loro opere prime: Other voices, other rooms del 1948 e Il ragazzo morto e le comete, uscito all’inizio del 1951 per Neri Pozza – un’assonanza che col suo fiuto Emilio Cecchi aveva colto subito: “Leggendo, mi veniva in mente Altre voci, altre stanze di quell’altro giovanissimo allucinato: Truman Capote. Altre voci era stato tradotto nel 1949 [da Bruno Tasso per Garzanti]. Io non pensavo tuttavia a nessun diretto rapporto di derivazione. Pensavo piuttosto che, come dopo l’inflazione neorealistica, in America, il gusto simbolista, con Capote, era rientrato dalla finestra, qualcosa di simile sembrava che stesse accadendo in Italia con Il ragazzo morto e le comete”.[4]
Di fiuto non minore, la colse anche Eugenio Montale, recensendo il 14.11.1953 sul “Corriere” l’opera seconda di Parise, La grande vacanza (Neri Pozza 1953): “un’aura stranamente prossima a quella che ha dato a un altro giovanissimo scrittore – l’americano Truman Capote – il suo quarto d’ora, ancora non trascorso, di celebrità. Qua e là pare addirittura che lo stile sfiori l’incertezza di certe traduzioni; né sapremmo dire se tanto possa una magari inconsapevole ammirazione o se ciò sia l’effetto di un’autentica affinità».
Di lì a breve Montale, divenuto nel frattempo amico di Parise, avrebbe sciolto il dubbio optando per il secondo corno; però non valutò una terza opzione, ossia che “affinità” e “ammirazione” coesistessero, in dosi da determinare. Ma se così ritorna il dubbio, perché non dubitare anche del primo incontro? A pensar male si sbaglia spesso, ma qualche volta si azzecca, tanto più che nell’elzeviro sbuca un We talked altamente improbabile: dal suo epistolario infatti emerge che solo a ridosso del primo viaggio in USA Parise tentò di assimilare i rudimenti dell’inglese, con risultati desumibili da una lettera del 24.3.1961 (quarto giorno di permanenza a NY): “Non ne potevo più di guardarle soltanto queste negrette, sono ritornato al bar di Brodway e rapidamente ne ho raccolto una. Parlando un po’ francese, un po’ inglese (quello che ho imparato in tre giorni) ci siamo capiti”.[5]
Certo, Parise e Capote possono aver conversato in francese all’Harry’s Bar, e l’americano in Sicilia da mesi… ma spero di non abusare del lettore riservandomi un supplemento d’indagine, ossia un secondo capitolo.
NOTE
1. Opere, a cura di B. Callagher e M. Portello, Mondadori 1989, II, 1500-1503.
2. G. Clarke, Truman Capote: una biografia (1988), Frassinelli 1989, pp. 181-183. Capote trascorse quel periodo tra costa catalana e Verbier in Svizzera, lasciando il continente per due puntatine a Londra. Quanto a Marylin, uscita di clinica psichiatrica a inizio marzo 1961, dopo una comparsata al gala newyorkese di beneficenza per l’Actor’s Studio il 13 marzo, raggiunse Joe Di Maggio in Florida (cfr. A. Summers, Goddess: the secret lives of Marilyn Monroe, New American Library 1986, pp. 198-202). Parise consegnò la cronaca dei giorni americani in un gruppo di lettere uscite postume dove non c’è traccia dell’incontro al Morocco e Marylin viene menzionata solo nella lettera del 12.4.1961 da Las Vegas, così: “Se in fondo là ci fosse Marylin Monroe che ti aspetta, ci andresti a piedi? Subito, ma arriverei in tali condizioni… (brano di nostra infantile conversazione [tra Parise e Pierluigi Polidoro appiedati in Arizona])”, New York, Rizzoli 2001, p. 123.
3. Nel giugno 1951 Capote (nato il 30.9.1924) era dunque ventiseienne, Parise (nato l’8.12.1929) ventunenne. Nella cronologia del Meridiano l’incontro viene erratamente datato al 1952.
4. Di giorno in giorno, Garzanti 1952, p. 392.
5. New York, cit., p. 84. Stranamente il curatore Silvio Perrella non segnala che destinatario delle lettere americane, sotto lo pseudonimo “Vittorio”, era Mario Monti, direttore editoriale della Longanesi e grande amico di Parise.