Oltre mezzo secolo fa Pier Paolo Pasolini (1922) con il Manifesto per un nuovo teatro uscito su “Nuovi argomenti”, gennaio-marzo 1968 e Giovanni Testori (1923) con Il ventre del teatro pubblicato su “Paragone”, giugno 1968, toccano alcuni punti nevralgici che dovremo riesaminare con urgenza.
Scrive il primo: La sua novità consiste nell’essere, appunto, [teatro] di Parola: nell’opporsi, cioè, ai due teatri tipici della borghesia, il teatro della Chiacchiera o il teatro del Gesto o dell’Urlo, che sono ricondotti a una sostanziale unità: a) dallo stesso pubblico (che il primo diverte, il secondo scandalizza), b) dal comune odio per la parola, (ipocrita il primo, irrazionalistico il secondo). Il teatro di Parola ricerca il suo “spazio teatrale” non nell’ambiente ma nella testa.
E Testori: La dialettica e la speciosa vanità del pensiero laico hanno cercato di destituire d’ogni valore le ragioni ultime (le ragioni oscure e sacre) della parola-materia (e mettiamo pure che fossero e restassero pressoché indicibili; un pantano d’imprecazioni, d’urli irrisolvibili e di bestemmie); ma lo scotto da pagarsi è sempre stato che la morte della parola (della ‘letteratura’), infinite volte decretata, ha dovuto altrettante volte esser rinnegata perché quella dialettica potesse disporre del minimo di terreno su cui agire con una certa credibilità, anche sociale e mondana; diciamo pure, del luogo deputato per cui il teatro è teatro. Ora questo luogo non è scenico, ma verbale. E risiede in una specifica buia e fulgida, qualità carnale e motoria della parola; carnale e motoria non necessariamente nel senso dell’azione storica, ma in quello dell’azione incarnante (o del suo tentativo). La parola del teatro è, prima di tutto, orrendamente (insopportabilmente) fisiologica.
Luca Sossella