Ha davvero tutto Seymour Levov detto lo Svedese: biondo, statuario, eccelle in ogni sport-feticcio della sana, spensierata gioventù americana del dopoguerra – baseball, basket e football – gode di un ampio patrimonio ereditato dal padre che a sua volta aveva raccolto i frutti del lavoro del nonno, radice di ogni emigrazione.
Ha perfino al suo fianco una moglie già Miss New Jersey, lo Svedese, di bellezza riconosciuta, abbacinante ma al contempo contenuta, di fulgore ossimoricamente discreto, magnificamente adatta a una vita esemplare da portare avanti nel solco del decoro.
Come potrebbe sfuggire un tale uomo al suo destino di oggetto dell’idolatria assoluta di un’intera nazione? Non lo farà. Dopo una giovinezza trascorsa serena su un perenne podio figurato (con un continuo basso di fondo delle ovazioni che lo pongono di diritto nell’aura del mito), l’inarrivabile sportivo si accomoda in una vita decorosa e ammirata, una “vita come dovrebbe essere”, prendendo salde in mano le redini dell’azienda di guanti del padre per costruirsi una esistenza senza falle a perpetrare a modo suo il sogno americano.
Gli è sufficiente uno scarto minimo, indolore, un singolo adattamento a raggiungere il perfetto quadro di insieme: il piccolo scoglio è la non appartenenza della moglie Dawn alla sua religione e cultura ebraica. Ma la sua bellezza, provatamente di marca superiore, consola, sopperisce alle mancanze, appiana, fa superare ogni impedimento: la loro unione, anzi, diventa così funzionale alla definitiva integrazione dello Svedese a pieno titolo nella rispettabile società americana. Con i record sportivi, l’azienda avviata e la donna giusta lo Svedese assurge a modello intergenerazionale e icona interclassista, fa dire a chiunque: “il nostro Kennedy è lui”: diventa “strumento della Storia”.
E’ il mito che tutti vorrebbero avere per amico, meglio ancora, quello che tutti ambirebbero abitasse nel loro quartiere per poterlo ammirare ma a una giusta distanza di rispettosa sicurezza. Un’ammirazione ingenua e pura, del tutto priva del legittimo fastidio che potrebbe suscitare tanta compiutezza: perché lo Svedese non esibisce sussulti di autocompiacimento, riesce anche nel porsi un confine nel maneggiare con sobria gestione quel “narcisismo che un’intera comunità alimentava col proprio affetto”.
Tutto in lui è contenimento e bellezza e ricade in una perfezione cristallina.
Se la merita, una moglie straordinaria che gli dia una famiglia altrettanto speciale. E così pare essere: nasce loro una bimba che verrà amata strenuamente, Meredith detta Merry.
Eppure è qui, nei luminosi giorni felici, che si insinua la prima, impercettibile, crepa: prende la forma di un lieve difetto, una balbuzie, tenace, rabbiosa di cui Merry non riesce a liberarsi.
Un limite, una carenza, una falla inspiegabile: è il segnale anticipatore, il primo incrinarsi della superficie liscia, tesa, compatta. Proprio Merry sarà la mano per cui la tragedia si compie. E’ lei, l’amata figlia del mito incarnato immigrato di terza generazione e di Miss New Jersey, ma anche figlia del suo tempo e delle lacerazioni causate della guerra del Vietnam, che imbevuta di teorie anticapitaliste mal interpretate, si ribella ai valori incarnati del padre e da (parte della) sua nazione. Dice di voler dare un segnale forte al mondo, di voler “riportare la guerra in America”. E lo farà, alla lettera, diventando la “terrorista che uccide”, piazzando una bomba nel piccolo ufficio postale fuori da ogni mappa di New Rimrock, la piccola cittadina vicino a Newark dove fino ad allora i Levov avevano trascorso la loro vita idilliaca, “pastorale”.
“Addio America pittoresca. Salve, mondo reale”: deflagra l’ordigno, deflagra la famiglia, nucleo primario della società. Scompare, Merry, “la figlia, la quarta generazione americana, una figlia fuggitiva che avrebbe dovuto essere l’immagine perfezionata di se stesso come lui era stato l’immagine perfezionata di suo padre e suo padre l’immagine perfezionata di suo padre di suo padre”.
Lo Svedese parte alla sua ricerca, che sarà disperata. Ritrovare la figlia significa ritrovare se stesso, ricostruire un nucleo familiare e ricostruirsi.
Significa scoprire e venire a patti con il lato oscuro.
Lo vedremo inabissarsi in una discesa dolorosa alla quale è del tutto impreparato, una via crucis di figuranti, personaggi ambigui, macchinazioni, bugie. Il male esiste e gli è attorno, gli è dentro, deve venirne a patti.
Il buon Levov si trova a fare i conti con il dolore, con la sua storia personale e con il suo fallimento, compiuto emblema a contenere il fallimento del “sistema America”, di tutto l’Occidente.
Troppo da poter raccontare in prima persona: a ricostruire ogni tappa della sua vicenda, Roth fa entrare nel romanzo “l’espediente Zuckerman”, il suo alter ego letterario e filtro acclarato, che qui appare nelle veci di un ex compagno di scuola del fratello dello Svedese. E’ a Zuckerman che Levov chiede di scrivere non la propria, ma la storia del padre e del suo sbarco in America dal Vecchio Continente. Una proposta che lo scrittore scarta troppo precipitosamente e a cui rinuncia, dapprima. Per tornarci in seguito a un ripensamento, alla notizia della morte dello Svedese, e prendere in mano la vicenda della famiglia, spostando l’attenzione però sulle due ultime generazioni.
E’ la sua voce a far emergere una a una le dissonanze, i sottotraccia, a squarciare ogni velo.
Al suo occhio attento non sfuggiranno le lacerazioni e i tracolli di tutti i personaggi, neanche di quelli di contorno: esemplare in questo senso la trasformazione dell’ex miss New Jersey, che prenderà ad allevare vacche, desiderare una nuova casa, farsi un lifting e un amante a rinnegare il felice passato in toto.
Ed è sempre per il tramite di Zuckerman che Roth sceglie parole e registro straordinariamente appropriati a raccogliere i numerosi fili di un intreccio che prende oltre quattrocento pagine, per consegnarci un romanzo di respiro amplissimo.
Un capolavoro di costruzione narrativa, complessa e controllata, che prende a tratti toni elegiaci, e poi del grottesco nel dramma, dell’ironia, dell’analisi spietatamente lucida di interni borghesi e buona creanza.
Lo fa con la maestria assoluta che ci attendiamo da Roth, “il miglior scrittore di romanzi al mondo”, come venne definito. Maestro assoluto nelle mantenere saldo lo sviluppo delle digressioni, tante, i sottotesti che vanno a intrecciarsi, i piccoli episodi a latere (ma mai, lo scopriremo leggendo, a perdere) e che solo un romanziere della sua grandezza riesce a controllare sottraendosi al rischio del pastiche scollato.
Rimane invece una sensazione di compiutezza al termine della lettura, di aver la grazia di essere di fronte a un canto epico, un affresco dagli echi tolstoiani che narra di un’epopea e della sua fine nello scivolare inesorabile di generazione in generazione.
Va a concludersi senza consolazione, Pastorale Americana, premio Pulitzer 1997.
Annientato, l’ombra dell’uomo che era, allo Svedese resta una litania di domande: si interroga sul dove (“dove, dove ho sbagliato?”), sul quando (quando è stato che la sua vita ha perso la “tangibile pienezza quotidiana”?), sul “come è possibile?” che anche percorrendo i binari più saldi e stabili e prestabiliti ogni vita possa sbriciolarsi? Ma “non era” – si interroga – che “dovevi solo fare il tuo dovere strenuamente, e inflessibilmente come un Levov, e l’ordine diventava una condizione naturale, la vita quotidiana una storia semplice dal limpido svolgimento, una storia assolutamente tranquilla , le fluttuazioni prevedibile, la battaglia contenibile”?
C’è amarezza profonda, nella sua tardiva presa di coscienza: ammette il limite, la sua impossibilità a comprendere l’esistenza dello scarto dal Bene.
E al comportamento della figlia ribelle e iconoclasta, alla sua deriva, e alla bomba, si sforza di ribattere con una spiegazione che sappia di logica, che restituisca un senso all’insensato, all’ingovernabile assenza di ordine del Caso: “Ci odiate… perché siamo prudenti, equilibrati e industriosi e accettiamo di rispettare la legge. Ci odiate perché non abbiamo fatto fiasco. Perché abbiamo lavorato sodo e onestamente per diventare i migliori nel nostro campo e per questo ci siamo arricchiti, ecco perché ci invidiate, ci odiate e volete annientarci.”
E’ dunque l’integrazione nella salubre società decorosa che la figlia condanna (topos, peraltro, squisitamente ebraico: l’urgenza all’integrazione a contrasto con il perenne bisogno di conservare definita identità a sé stante). Prevedibile. Ma queste parole in tono aspro di predica paterna, si concludono con uno scarto inatteso. Roth fa spostare lo sguardo dello Svedese al di dentro, nella sua profonda coscienza: l’osannato sportivo poi imprenditore circondato sempre dalla gente, dai fan adoranti, perviene a riconoscere – ed esprimere, ora, solo ora – la sua fragilità: “Temi e rispetta non il comunismo, stupida figlia mia, ma la comune solitudine quotidiana.”
La solitudine assoluta, tanto dolorosamente “comune” che non permette di entrare nell’altro, di com-prenderlo: questo, il vero fallimento della società civile.
E la società siamo noi.