Tony Cercola nasce, artisticamente parlando, negli anni settanta, nell’ambito del cosiddetto Neapolitan Power, di cui famosi esponenti sono stati Pino Daniele, Edoardo Bennato, Eugenio Bennato, Tony Esposito, Tullio De Piscopo, James Senese. Ha collaborato con altri grandi nomi della musica italiana e internazionale: Don Cherry, Brian Ferry, Roberto Murolo, Mia Martini, Eduardo De Crescenzo, Dario Fo e tantissimi altri.
Oltre a queste collaborazioni, ha pubblicato diversi album come autore ed esecutore, affiancato dalla cantante argentina Anarita Rosarillo, sua compagna anche nella vita.
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Gli anni settanta hanno rappresentato, in campo musicale, per il Mezzogiorno d’Italia e specialmente per la città di Napoli, il ribaltamento dei soliti cliché e luoghi comuni laddove tuttora si vuole rappresentare il popolo partenopeo con pizza e mandolino; poeti e musicisti del Neapolitan Power recuperarono di forza la tradizione attualizzandola, attraverso l’esaltazione del mondo reale nella sua globalità anziché nei suoi particolari: una propensione sincretica atta a esprimere la veridicità di una poetica di stampo popolare, comprensiva di miscuglio etnico, nella fusione di elementi musicali che sembravano inconciliabili, a dispetto di tutti quei fattori campanilistici – ai limiti del provincialismo fine a se stesso – il più delle volte deleteri alla questione meridionale. I napoletani pervasero lo spazio identitario di un’alterità dal sapore blues, evidenziando le diversità insite in ciò che, in ambito socio-culturale, viene considerato tradizionale. Una vera rivoluzione partita dal basso.
Cosa rimpiangi di quegli anni? Quanto è cambiata la scena musicale di Napoli?
Sono cambiate tantissime cose; prima di tutto, gli schemi musicali. In quegli anni era come partecipare a un continuo laboratorio, la musica ti permetteva di crescere anche come persona, individuo. Il patrimonio artistico napoletano era in una fase di rinnovamento, e io facevo parte di quel flusso musicale così ricco di entusiasmo e passione, ne ero orgoglioso e allo stesso tempo avevo tanta fame di apprendere. Il mio percorso non è stato affatto semplice: ho conosciuto l’umiliazione, sono stato messo da parte perché non riuscivo ad adattarmi a quella nuova forma canzone, a quel nuovo sound. Ma oggi posso dire che le difficoltà che ho attraversato si sono tramutate in importanti risorse: quella musica, nata a Napoli, ha girato il mondo e mi ha permesso di suonare su tanti palchi internazionali di altissimo livello.
Tutti i tuoi dischi hanno il pregio di spaziare, con una naturalezza sorprendente, tra culture musicali di continenti diversi: sonorità balcaniche convivono serenamente con caratteristiche sonore proprie della musica cubana, di quella argentina e africana, mantenendo al contempo la tua terra di origine come punto di riferimento, e fondendo tutti questi stimoli in un genere unico, definito etnico-mediterraneo. Voci scomposte, quello che considero il tuo capolavoro – senza ovviamente voler togliere nulla a tutti gli altri album, sempre di indiscutibile qualità –, è frutto di una ricerca portata avanti da te per anni, coinvolgendo artisti come Eduardo Bennato, Daniele Sepe e Enzo Gragnaniello. Da “percussautore” quale sei, e come ami definirti, sei riuscito addirittura a creare un linguaggio nuovo, il “lumumbese”. La tua carriera di turnista e in seguito di autore è iniziata con il geniale utilizzo di strumenti poveri, come ad esempio la “buatta”, una scatola di latta simbolo di quell’arte di arrangiarsi tipica dei napoletani.
Quando e in che modo è arrivata la grande platea?
Nei miei lavori ho sempre ricercato talenti nuovi, scovando spesso musicisti non ancora affermati ma che avevano la cosiddetta stoffa. Ho sempre creduto nelle risorse fresche, le ho sempre cercate, ovunque. Prima, a differenza di adesso, che gli spazi sono per la maggiore virtuali, la fisicità era una componente fondamentale, gli errori li correggevamo mentre suonavamo. Oggi si usano ritmiche elettroniche scaricate dal web e melodie preimpostate; sembra quasi che ci sia una sorta di intolleranza nei riguardi della composizione. C’è molta, troppa pigrizia. La grande platea l’ho raggiunta grazie ai nomi che tutti conosciamo, tra cui Pino Daniele e Eduardo Bennato. Ho suonato su Rai Uno, Rai Due, con più di dieci milioni di telespettatori che ci seguivano. All’epoca c’erano solo due canali televisivi. Poi sono arrivati i concerti nei palasport e negli stadi: quarantamila, cinquantamila, sessantamila persone. Un delirio! Una platea viva, non virtuale e di conseguenza mai finta. Altro che visualizzazioni: i numeri ce li ritrovavamo difronte, potevamo toccarli con mano.
Raccontaci il tuo esordio alla Rai, nella trasmissione Auditorio A, insieme al compianto Pino Daniele. Cosa hanno significato per te la sua musica e la sua amicizia?
Quella era una trasmissione cult, prodotta dall’Auditorium di Napoli. Era il settantasette, sono trascorsi più di quarant’anni. Fui presentato da Pino Daniele come nuovo turnista: ero solo un ragazzino, chiaramente intimidito. Alle mie spalle vi era un’orchestra enorme, e mi venne chiesto di dare l’attacco. Ancora non so come, ma in qualche modo riuscii a farlo, e fu un live davvero memorabile, il mio trampolino di lancio. Da allora vivo di musica, continuo ancora a comporre, conservando quella curiosità che tanto mi è tornata utile nel corso della mia vita professionale. Con Pino Daniele è stata una crescita continua: lui è stato l’unico europeo a usare il blues per veicolare la sua poeticità, anziché farsi usare dal blues. Ci ha sempre tenuto alla propria identità musicale, a differenza per esempio di Zucchero, che agli inizi sembrava un clone italiano di Joe Cocker, e solo dopo è stato in grado di rinnovare il suo stile, tra l’altro con grande bravura. Pino invece è stato originale fin dagli esordi: era una poesia vivente.
Nella tua biografia Per chi suona la buatta (Arcana Edizioni), scritta a quattro mani con Antonio G. D’Errico, racconti molti aneddoti – a volte esilaranti –riguardo la tua carriera, per esempio di quando un motociclista ti si avvicinò per chiederti un autografo, ma tu credevi invece che volesse aggredirti. Come è nato questo libro?
Antonio D’Errico ha dimostrato grande coraggio, decidendo di immergersi nella vita di un uomo della provincia, quale io sono. Ѐ stato bravo a raccontare la storia, a tratti amara, di un proletario, un ex operaio di fabbrica che sognava la musica ma era privo di mezzi. Ero anche balbuziente e quindi avevo seri problemi nel rapportarmi con gli altri: la maledizione di un provinciale, che tu conosci bene. Non è stato per niente facile. A scuola venivo spesso bullizzato, i miei coetanei mi rubavano la colazione. Nel libro sono presenti svariati aneddoti, anche riguardanti la mia collaborazione col grande Dario Fo, più testimonianze di Pino Daniele, James Senese, Gigi D’Alessio, Franco Del Prete, Rino Zurzolo, e tantissimi altri artisti e addetti ai lavori che hanno espresso la loro opinione riguardo il mio percorso artistico. Una notte alquanto buia, a Roma, mentre passeggiavo in compagnia del produttore di Nacchere Rosse, un motociclista per poco non ci venne addosso, ci sfiorò proseguendo il suo tragitto. Al che lo mandammo a quel paese. Costui frenò bruscamente, parcheggiò la moto e si tolse il casco: era un uomo aitante, alto pressappoco due metri; si incamminò lentamente verso di noi – sembrava una scena presa dal film Per un pugno di dollari. Io e il mio amico, Enzo La Gatta, ci stavamo preparando al peggio, ci guardavamo attorno alla ricerca di un bastone, di un’arma qualsiasi: quella situazione ci mise addosso una gran fifa. Ma una volta avvicinatosi, il motociclista incominciò a complimentarsi con me e volle stringermi la mano: mi aveva riconosciuto! Gli feci un autografo e, ironia della sorte, gli vendetti anche un mio disco. Una serata assurda.
Bolero romano è una delle tracce che prediligo della tua produzione musicale, e so che è dedicata alla figura di tuo padre. Che tipo di rapporto avevi con lui?
Quel pezzo ha una storia straordinaria, è nato a casa di Dodi Moscati, grande cantautrice nonché giornalista: lì feci la melodia al pianoforte, e in seguito inserii la voce registrata di mio padre. Il mio rapporto con lui è stato conflittuale: era un ex batterista, fallito nei suoi intenti anche perché nessuno gli aveva mai dato un’opportunità. Non ha mai creduto in me, reputava insensato il cammino che avevo scelto, ma poi in vecchiaia devo dire che si addolcì molto. Faceva il panettiere, e mentre lavorava era solito canticchiare percuotendo una bilancia per creare un accompagnamento ritmico, e colpendo con il piede il bancone come si fa con una grancassa.
La musica ti ha permesso di riscattarti e di controbattere alle problematiche giovanili – ahimè attualissime, penso per esempio al bullismo – con la forza dell’arte e il rigore dell’artigianato relativo alla ricerca sonora. Come ti rapporti con i giovani musicisti? Quali consigli ti sentiresti di dare, dall’alto della tua esperienza, a chi sta intraprendendo questa tipologia di percorso?
Il mio consiglio è quello di essere innanzitutto curiosi. Un compositore non ha bisogno di schemi fissi; curiosare nel mondo del sonoro, mischiare generi, proprio come faccio nei miei dischi. Le nuove leve non devono aver paura di osare, anche perché di giovani talentuosi ne è pieno il mondo, per fortuna. Devono sfruttare e ottimizzare le possibilità che hanno a disposizione, perché ne hanno in abbondanza; quando ho iniziato io, ve ne erano ben poche.
Qual è il concerto che ricordi con maggiore soddisfazione?
Ce ne sono tantissimi, non potrei mai parlare di uno in particolare. Ogni concerto è un’avventura a sé. Mi sento soddisfatto sia dei live che ho fatto davanti a sessantamila persone, sia di quelli davanti a trecento. Il teatro, per esempio, mi dà la possibilità di sperimentare in completa libertà, posso rendermi conto di cosa riesco a comunicare osservando le reazioni della gente: un pianto o una risata, sono indicatori naturali per capire cosa si sta trasmettendo. E qui torniamo all’immediatezza, alla fisicità, cose che il mondo virtuale non potrà mai fornire in termini di autenticità. Mi sento davvero soddisfatto quando mi accorgo che ciò che desideravo esprimere riesce a fare centro nel cuore di chi mi ascolta: per me è una grande vittoria.
Intervista a cura di Roberto Addeo