Ci sono tanti modi di raccontare e di raccontarsi. E non necessariamente lo si deve fare servendosi delle parole. Ci sono anzi taluni casi in cui, il racconto, rifuggendo dalle imposizioni di una formula che comunque si tende sempre a immaginare saldamente agganciata ai binari della fabula e dell’intreccio, si rivela altresì nella libera composizione, da intendere tanto quanto come giustapposizione temporale di fatti lontani ed eterogenei, quanto, ancor di più, in quella derivata dalla fusione di linguaggi diversi. Che nelle mani giuste, in mani in grado di creare ibridi affascinanti per naturale disposizione o anche per sopraggiunta illuminazione dovuta a decenni di paralleli apprendistati in vari esercizi artistici, si rivela una forma di ars narrandi che nulla ha da invidiare a quella “canonizzata”.
È proprio quello che accade in questo “A book of Days” di Patti Smith (Bompiani, 2023, pp. 398, € 25), un agile tascabile in cui la Sacerdotessa del Rock dà vita ad un affascinante, prezioso diario personale in cui per ogni giorno dell’anno (tranne il 30 e 31 dicembre, uniti in un singolo scatto) sceglie una propria o altrui fotografia, integrandola con alcune immagini di quadri e testi, sotto ognuno dei quali, letteralmente, rilascia una breve didascalia in cui la sua ormai ben nota vena di poetessa va a mescolarsi con riflessioni di spessore filosofico se non a dei veri e propri haiku. E l’esito è davvero sorprendente, perché la lettura sinottica del dato visivo con la parola scritta dona ad ogni singola pagina di questo libro una sorta di aura arty e profonda che ben appartiene alla sua creatrice, fin da prima di rivelarsi al mondo con i seminali album degli anni Settanta dello scorso secolo che la consegnarono a fama imperitura.
C’è un intero universo personale e spirituale in questa sorta di memoir meticcio, perché mentre la Smith, sfruttando ricorrenze varie, ci concede squarci continui del suo vissuto personale, parallelamente, sempre utilizzando l’escamotage delle ricorrenze, tira dentro nel “narrato” alcuni totem della sua formazione di artista (Rimbaud, Burroughs, Artaud), non dimenticando di omaggiare a ripetizione grandi colleghi di ogni secolo e di ogni angolo del mondo, qualcuno anche poco prevedibile. L’operazione, ça va san dire, gli riesce meravigliosamente, facendo sì che l’attenzione (e il didentro) del lettore voli e atterri continuamente dal e sull’aeroporto della fantasia, permettendogli di immaginare, anzi, di conoscere quello che è stato e continua ad essere uno degli “spiriti inquieti” più affascinanti di una stagione e di una rivoluzione di espressione e di senso di cui sarebbe impossibile, anche per i più duri di cuore, non innamorarsi.
Al di là del valore strettamente fotografico dell’opera, piace infine sottolineare come l’autrice abbia saputo valorizzare al meglio le immagini scattate nel corso di tanti anni e di tanti viaggi (fisici e non) con le sue “antiche” apparecchiature o attraverso le sue Polaroid, ma abbia anche pienamente compreso in che modo trasformare degli apparentemente banali scatti di social in qualcosa di molto forte, in qualcosa in grado di scavare. Dimostrando quindi, lei ormai quasi settantasettenne, di aver pienamente compreso come nell’odierna dittatura dell’immagine a tutti i costi alla quale -nessuno escluso- siamo sottoposti, una delle poche efficaci azioni di disturbo sia quella di dotarle di un’umanità e di spogliarla, con semplicità, di quella troppo spesso ricorrente patina di omologazione e assenza di sangue, per mostrare… come la vita possa ancora respirare. Uuuuufffff!
Una pubblicazione preziosa, come spesso da parte della Smith, e un bellissimo regalo da fare a se stessi e agli altri.
Particolare davvero e consigliato tanto ai suoi devoti quanto a chi poco conoscesse (ahilui, ahilei!) la meravigliosa Patti.