Berlino Blues – il romanzo polifonico di Paul Scraton che le tipe di 8tto edizioni portano in libreria il 4 marzo – è un racconto malinconico dedicato alla capitale tedesca: una città in continua trasformazione ed evoluzione, che brulica di persone, di storie e di Storia. Attraverso un mondo di volti e di vicende personali, che l’autore fa riemergere appozzando a piene mani dalla memoria dei protagonisti, viene ricomposta una parziale carta d’identità di una Berlino inquieta e sofferente ma sempre maledettamente vitale. Passando da un racconto all’altro si ha come la sensazione di trovarsi davanti a vecchie fotobuste cinematografiche: dai vecchi villaggi a nord e sud della città alla Berlino post muro; dall’antico cimitero dove riposa Mendelssohn alle case di legno sul crinale ai confini con la Polonia; dalla stregoneria al punk; dalle rivoluzioni fallite a quelle andate in porto. È dalle storie più intime dei suoi abitanti però che prende vita questo racconto polifonico, diretto da un narratore anonimo che incontra questi personaggi nel decadente pub di Frank: Annika, l’artista che disegna mappe; Markus, l’anziano ex impiegato della STASI; Boris, appassionato cinefilo; Charlotte, canadese che impara ad amare Berlino dopo la morte del collerico nonno. Tasselli di vicende e protagonisti che compongono un mosaico suggestivo.
ATTENZIONE: È fortemente consigliata la lettura con Three O’Clock blues del “Blues boy” B.B.King di sottofondo.
Roberto Venturini
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La creatrice di mappe
La città era in movimento. Quando Annika disegnava le proprie mappe, a partire dagli schizzi iniziali fino al momento in cui scannerizzava al computer i suoi tratti inchiostrati, riusciva a individuare i cambiamenti. E nel momento in cui aveva finito, si lamentava, erano già superate. Qualcosa veniva aggiunto e qualcosa tolto alla città. Uno spazio vuoto veniva riempito, oppure si formava un buco. Sul proprio tavolo di lavoro accanto alla finestra ne srotolava una in corso d’opera, e picchiettava il dito esasperata sulla carta spessa.
«Qui. Qui. E qui.»
Chiedeva se dovesse modificarla, se dovesse tentare di stare al passo con gli sviluppi più che poteva, ma la risposta era sempre no. Sì, la città era in movimento, inquieta sulle proprie fondamenta come era sempre stata; ma sulla mappa sarebbe stata salda, fissa in un posto. Il suo lavoro consisteva nel catturare un attimo. Se Annika veniva sempre ostacolata nel suo tentativo di mostrare la città come era al momento, era comunque in grado di avere in mano la città come era stata.
Per disegnare le sue carte, Annika se ne andava a spasso. Era una parte fondamentale del processo, insieme alle puntate in biblioteca per cercare vecchie mappe e fotografie, alle visite nelle librerie antiquarie e ai banchi dei mercatini, così come le ore passate a navigare la città virtuale attraverso il baluginio di uno schermo retroilluminato. A volte faceva uno schizzo preliminare della passeggiata, quando il tema era stabilito e ne conosceva già i luoghi chiave. Altre volte andava a vedere che cosa riusciva a trovare. Erano passeggiate lente, le sue, a volte solo un chilometro all’ora, mentre tentava di assorbire e documentare tutto quello che vedeva nel frattempo. Per alcune mappe, una sola passeggiata bastava. Per altre doveva uscire due, tre volte o anche di più, in diversi angoli della città. Il numero più alto di passeggiate che aveva fatto per una mappa era stato trentadue, e aveva attraversato il cuore di Berlino prima di costeggiarne le periferie. Un sistema GPS nel telefono la tracciava mentre andava, registrando tempi e distanze, creando una linea rossa su una cartina per mostrarle il percorso che aveva fatto. Dopo la camminata arrivavano altre puntate in biblioteca, per approfondire gli indizi che aveva trovato per strada. Tutto questo lo metteva insieme – le fotografie, le mappe, gli appunti – seduta al
tavolo da disegno, il foglio bianco srotolato davanti a sé, e iniziava a disegnare.
Le mappe venivano prodotte in una tipografia nel nord della città, all’interno di un edificio in mattoni di una vecchia fabbrica, tra la prigione e l’aeroporto. Durante la procedura, Annika passava una volta a vedere, per controllare i colori e la carta, prima che le macchine iniziassero ad arrotolare e piegare, per poi averle impilate nelle scatole che venivano consegnate al suo appartamento, dove le conservava insieme alle altre sugli scaffali della propria camera da letto. Erano mappe in edizione limitata, bro-
chure ripiegate che vendeva ogni weekend a un banco del mercatino di arte e libri giù lungo il fiume. Prima che lasciasse Berlino la prima volta, la serie consisteva in sedici mappe singole, ognuna delle quali raccontava una storia particolare della città. Noi le avevamo tutte, in fila nella libreria vicino alla scrivania. Una era incorniciata, ed era appesa al muro sopra il divano. Una rimaneva nascosta,
K. la conservava sul fondo del cassetto, nell’armadio che c’era dalla sua parte del letto.
Annika chiamò la serie Un modo di vedere, e oltre al mercatino di arte e libri, forniva le proprie mappe anche a un piccolo numero di librerie e gallerie, teneva mostre a Berlino e fuori città, e per ogni edizione organizzava un lancio che otteneva una crescente attenzione da parte dei media. Le
mappe facevano guadagnare ad Annika pochissimi soldi, di certo non abbastanza da coprire l’affitto del suo piccolo appartamento, che pagava grazie a lavori per terzi, creando loghi, volantini, biglietti da visita e altri servizi di grafica per diverse aziende. Queste cose le faceva solo per i soldi.
Se le chiedevano che lavoro facesse, lei glielo mostrava tirando fuori una bozza della sua primissima mappa (Un modo di vedere 01: Joseph Roth), che teneva nella borsa di pelle proprio per quell’eventualità. Non menzionava per niente il lavoro di graphic design, dei siti Internet e dei biglietti da visita, e nemmeno le lezioni di tedesco che dava a personale straniero delle multinazionali e delle start-up. Niente di tutto ciò era importante. Solo le mappe.