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Paul Willems. La cattedrale di nebbia

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Ci sono penne che hanno la consistenza di una visione e ci sono scrittori che hanno la capacità innata di riuscire a plasmare la materia di quella stessa visione come fossero mattoni di un edificio.

La cattedrale di nebbia del titolo è emblematica, così come la sua costituzione che si ritrova nel racconto a lei dedicato. Basterebbero quelle poche, meticolose frasi che ne descrivono la navata e le colonne, il percorso del vapore che sale fino a condensarsi in minuscole goccioline d’acqua per poi ricadere sulle “iris scolpite dall’orafo Wolfers” e subito par di poterlo percepire all’orecchio umano, il suono di ognuna di quelle singole gocce.

Un concerto onirico tra genio razionale, dinamiche gravitazionali e forze della natura mai così coese a risvegliare lo stupore umano e quel senso di piacevole spaesamento che si prova, usualmente, al limitare del sogno.

Si potrebbe scomodare la definizione di “realismo magico” o magari concedersi il privilegio di sostituire quel realismo con “materialismo” nella speranza di orientare il lettore nella giusta direzione onirica ma al tempo stesso estremamente fisica dell’intera raccolta, si potrebbero citare nomi quali Borges, per l’inventiva strabordante, o la sempreverde montagna incantata di Thomas Mann per l’atmosfera surreale e sospesa suscitata da certe situazioni, di fatto è innegabile quanto sia fondante l’esperienza nomade di un autore (direttore del Palais des Beaux-Arts e presidente delle Jeunesses Musicales) che ha trascorso una vita intera su treni e stanze d’albergo, all’insegna della divulgazione artistica e culturale.

Ne La cattedrale di nebbia, magistralmente tradotto per mano di Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo (Safarà Editore, 2024) Paul Willems ci consegna una manciata di racconti, pubblicati per la prima volta in francese nel 1983 e due saggi (Leggere e Scrivere), fondamentali per comprendere appieno l’universo immaginifico della sua poetica.

«Le parole non cantavano più e le frasi non spiccavano il volo. E quel giorno ho capito che le parole, una volta scritte e imbrigliate nella sintassi, perdono la loro fragranza, la leggerezza, perdono dolore e gioia, tutto ciò che in loro ci incanta e ci turba quando ancora non le abbiamo dette. In gabbia, gli usignoli ciechi cantano, le parole invece tacciono e si ammalano.»

Funzionale appare quest’estratto dal saggetto conclusivo in relazione a ciò che si andrà a leggere dei sei racconti che compongono la raccolta. L’impressione è che Willems abbia voluto instillare quella stessa leggerezza qui citata nella prosa di tutti i suoi componimenti. Aboliti dunque i confini tra veglia e sonno, vita e morte, logica e genuino trasporto, i personaggi che si alternano negli eterei racconti qui proposti possono rievocare sparuti Marcel di proustiana memoria alla ricerca del proprio tempo perduto, dei cari estinti, delle parole smarrite nel ricordo. I viaggi preposti non saranno dunque puramente topografici, si partirà dalla luce anemica di un’uggiosa Ostenda, cittadina protagonista del primo racconto (Requiem per il pane), per poi passare al viaggio dell’arcivescovo attraverso un Helsinki più invernale, desaturata, fino ad approdare in territori decisamente più spirituali nell’introspettivo Čerepiš, novella nomade che vede il protagonista e un etnologo (Hector) con “un’anima a forma di sorgente” in un dialogo conoscitivo, intervallato da brevi aneddoti passati e la scoperta di una serie di fotografie raffiguranti maschere dionisiache dai “grandi volti inquietanti”.

Puntuale e costante è il tema della morte, la rievocazione del passato attraverso parole che ritornano alla mente al pari di onde “slanciate sulla battigia”, la memoria come testimonianza di un passato inamovibile, ironicamente circolare, in contrasto all’evanescenza delle prodigiose architetture in cui spesso si muovono i nostri, vagamente storditi, piacevolmente cullati dalla cortina di una nebbia palpabile che attraversa la pagina fino a impregnare le mani e gli occhi di chi legge, «Il mondo si coniuga al presente dei nostri sensi e l’istante è la sua eternità.»

Un’eternità fatta strade sopite, città dormienti e ancora palazzi in balìa dei venti, monasteri imprigionati da un’edera millenaria, cattedrali le cui ambiziose geometrie paiono il frutto di un sortilegio partorito da divinità annoiate. Bastano poche, suggestive descrizioni a calarci in un contesto privo di facili paragoni ma le cui numerose influenze teologiche rimandano a una produzione (e relativa fruizione) letteraria concepita come un atto di fede, una preghiera, imprescindibile, che accompagna la parola.

«Leggere è un’attività che richiede una condotta quasi religiosa, perché a ogni lettura noi celebriamo un’opera, vale a dire una creazione, e perché tutti i libri di una biblioteca equivalgono, se presi insieme, alla creazione del mondo. Del mondo interiore. Ecco perché il luogo in cui si legge è importante come è importante il luogo di un rito.»

Si sente dunque l’esigenza di camminare in punta di piedi mentre si approccia la gelida soglia della Cattedrale, centellinare la pagina facendo tesoro di ogni frase concessa. Tale è la magnificenza e il senso di stupore, durante e dopo la lettura, che naturale diventa il bisogno di rallentare il respiro, restando immobili, al pari dei personaggi, assistendo in religioso silenzio allo spettacolo “immenso, crudele e meraviglioso” dell’istante consumato.

«La scrittura, nonostante lo scarto fra l’attesa e il testo, ci restituisce qualche frammento, qualche riflesso del mondo, i sorrisi o le lacrime di cui abbiamo bisogno. Se è così, c’è da augurarsi che mai nessuno scriva davvero quello che sogna di dire. Sarebbe insostenibile. Speriamo che l’Uccello d’Oro non canti mai e di vedere la notte dileguare tra le nostre braccia prima di essere riusciti a ghermirla.»

Stefano Bonazzi

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La cattedrale di nebbia

Paul Willems

Safarà Editore

16,00 euro — 112 pagine

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