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Per legge superiore

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Giorgio Fontana – Per legge superiore
Sellerio editore
250 pagine, 13.00 euro

Voglio cominciare questa rubrica con una confessione.
Sono uno scrittore e scrivo recensioni di libri italiani. Per farlo, uso, salvo rari casi, questa strategia: prima leggo e poi, solo se il libro mi è piaciuto, ne propongo la recensione. Sembra facile: così dico sempre e solo bene, non rischio di inimicarmi qualche collega, editore, ufficio stampa. Giusto?
D’accordo, alcune di queste argomentazioni hanno del vero. Dico solo che in questa scelta ci sono altre motivazioni, ben più serie, che vanno al di la dell’evitare di pestare i piedi a qualcuno. Motivazioni che non sto a raccontare qui, ora, perché non è questo il punto. Mi interessa piuttosto sottolineare – ed ecco che la confessione incomincia – che spesso anche questo tipo di scelta non è esattamente indolore.
Il fatto è che conosco gli scrittori di cui recensisco i libri. Posso averli incontrati, frequentati, ascoltati in radio, visti in televisione. O quantomeno posso averli letti nel loro quotidiano mettersi in pubblico nei social network, dove, di norma, ci si è reciprocamente aggiunti agli “amici”. Mi viene difficile, allora, ammettere che un libro  mi sia piaciuto qualora venga da una persona che detesto. O anche solo da una persona di cui non condivido l’atteggiamento, le opinioni,  le idee. In questi casi devo compiere uno sforzo di astrazione, di autocontrollo. Devo leggere il libro e parlarne con aplomb anglosassone per quello che è, restando tra le pagine e dimenticando l’autore. E alla fine della recensione rimane comunque qualcosa che mi tormenta nel profondo. Una sensazione di imperfezione, di non aver fatto pienamente il mio dovere.
Non è una banale questione di antipatia: è che ho la limpida convinzione che si scrive per quello che si è. E che se non lo si fa, si sta mentendo. Se uno scrittore arrogante, arrivista, maleducato, snob, scrive un libro intriso di impegno e caritatevole preoccupazione per il mondo, lo sta facendo per piacere a qualcuno (ai lettori, ai critici, alle giurie dei premi?). Non perché ci crede davvero.
E che importa, direte voi. Conta il libro, la pagina, l’impressione di lettura. Eh  no, invece importa eccome. Perché, se si mente, non si rispetta una delle poche regole che possiamo considerare fondanti per fare un buon libro: scriverlo perché è necessario, perché ci sgorga dall’anima, perché mette a nudo qualcosa che ci preme. Scriverlo, senza metter filtri di mezzo, perché non possiamo fare altrimenti.
Ora, finalmente, eccomi a Giorgio Fontana e a Per legge superiore.
Va da sé che io conosca questo scrittore. Ci siamo incontrati a qualche presentazione,  lo seguo da parecchio su Facebook, e soprattutto leggo i suoi quotidiani interventi sul sito internet che porta il suo nome. Ebbene, se dovessi indicare, tra gli scrittori contemporanei intorno alla trentina, una figura che sia pienamente definibile come un intellettuale – una figura attiva sulle cose importanti del mondo, e in modalità ragionante, costruttiva, indagatoria, anziché declamatoria, tranchant o lapidaria – direi: Giorgio Fontana.
Allora, per una volta, è con piena serenità, e anzi col piacere di compiere un atto giusto, che posso scrivere bene del suo nuovo romanzo (il terzo), uscito da poche settimane presso Sellerio editore. Dentro Per legge superiore ho infatti ritrovato la stessa sobrietà, la stessa partecipata volontà argomentativa, la stessa assenza di bellurie scrittoriali, l’epurazione completa da criptici nonsense immaginifici che conosco nel Fontana quotidiano.
Il romanzo gli corrisponde senza menzogne, e l’urgenza e la necessità sono fondanti: perché, per l’autore – come Fontana ribadisce spesso nel suo quotidiano ragionare intorno alla scrittura – un buon libro deve compiere ogni sforzo per rendere il mondo un posto migliore. Cosa che Per legge superiore prova a fare muovendosi in ambiti particolarmente cari al giovane scrittore milanese: l’etica, l’onestà, la giustizia.
C’è di mezzo un sostituto procuratore, Roberto Doni, che lavora a Palazzo di Giustizia, a Milano. Ha poco più di sessant’anni, una vita agiata che corre su binari ben saldi: il lavoro, una moglie, una figlia ricercatrice all’estero. Doni, sin qui, è stato un sostituto procuratore irreprensibile. La sua ottica è quella di far rispettare le leggi per quello che sono, cioè con rigore e senza furberie, senza concessioni alla comodità, senza mai “chiudere un occhio”. Soprattutto senza errori. Fare della buona giustizia, per lui, è rispettare accuratamente le regole, cioè le leggi, con l’implicito impegno a non preoccuparsi che queste leggi siano o meno aderenti a un (immaginario?) senso di “giustizia superiore”.
Ha un giro di conoscenze e frequentazioni che gli somigliano: “Conservatori ma non troppo. Rigidi, ma non troppo. Capaci di scherzare anche con battute bieche – ma non troppo. Formalmente simpatici. Ottimi genitori. Tendenzialmente di destra ma non berlusconiani. […] Seconde e terze case in luoghi scelti, per vacanze ben studiate.”
È dentro questo cocoon che aspetta l’ultima promozione, quella che lo porterà a essere il numero uno in una tranquilla procura di Provincia, dove chiudere la carriera con tranquillità, in compagnia di una moglie che è il suo specchio al femminile, nell’ottica di un fine vita nel pieno benessere loro e della figlia.
Sta per cominciare un processo d’appello, dove il magistrato sarà lui. Sembra una sentenza già scritta, perché riguarda un tunisino che durante un regolamento di conti ha sparato e colpito una ragazza della Milano-bene, che ne è uscita paralizzata, riconoscendolo poi in un album fotografico. Esattamente uno di quei casi che scatenano il giustizialismo degli assatanati spettatori dei titoli dei TG e in cui non si sbaglia a emettere sentenze esemplari. Ma una giornalista free-lance avvicina Doni per spiegarli che c’è un errore. Che il tunisino in questione non era nemmeno lì, la notte dell’aggressione. Che ci sono dei testimoni, e  che questi non vogliono (o in realtà non possono) parlare.
Il motore del romanzo, però, non è il dipanarsi di questa storia, di una indagine parallela. Benchè questo aspetto ci sia e muova a curiosità il lettore, dentro una narrazione all’insegna della chiarezza e della pacatezza, non stiamo affatto parlando dell’ennesimo “giallo colto” italiano. Il motore è la porosità dell’animo di Doni, la sua incapacità di tener fuori i germi da un mondo che non conosce e detesta (la Milano dell’immigrazione più disagiata, quella di via Padova). Il motore è l’apertura al dubbio, in funzione dell’accurato perseguimento della giustizia. E cioè la disponibilità di Doni, di fronte alla possibilità di commettere un’ingiustizia, a rimettersi in gioco, a rischiare grosso per se, per la propria carriera, e dunque per la propria famiglia e vita.
Voglio dirlo in una formula e chiedo perdono se dovesse sembrare troppo altisonante: il motore del romanzo è lo spettacolo dell’imporsi grandioso, rigenerante e necessario, dell’onestà.
Qualcosa che potrebbe suonare falso, impostato, persino un po’ trombone, oggi, abituati come siamo a all’understatement, all’ironia, al cinismo. Se non fosse che Fontana ci crede davvero, e che a leggerlo ci si accorge perfettamente che gli premeva dirlo. A chi? A un mondo dove l’onestà e la giustizia sono valori collocati a riposo. A un mondo che, con questo libro, l’autore prova a rendere di un poco migliore.

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