Sei nata come blogger irriverente, Pulsatilla appunto, con una formazione da copywriter alle spalle; fino a diventare negli anni una scrittrice di talento e una riconosciuta sceneggiatrice: quanta vita vissuta finisce nelle tue storie, quanto del non detto – ma fondamentale per chi immagina storie – resta fuori?
Cerco di coltivare una scrittura ellittica. Una parte si racconta, ma la si racconta in modo che anche quello che non si racconta si possa intuire. Fondamentale è togliere. Non solo per scrivere, ma anche per vivere. Siamo inondati di cose irrilevanti. Mi piace la poesia: è asciutta, lavora sul nucleo delle cose, il resto te lo devi immaginare; al contrario ho sempre detestato il romanzo di impianto ottocentesco: se incontro tre pagine di descrizione su com’è fatta una vallata, inevitabilmente getto la spugna. Per quanto riguarda l’autobiografia, la nostra scrittura è tanto più efficace quanto più si occupa di raccontare quello che tocca il nostro profondo, che abbiamo attraversato, che ci ha attraversato. Possiamo metterci barba e baffi finti, darci un nome di fantasia e ambientarci nell’Inghilterra del ‘700, oppure essere dichiaratamente autobiografici, poco importa: l’importante è esserci. Non credo si possa fare buona scrittura senza correre dei rischi emotivi.
Quali sono gli autori classici da cui non vorresti mai separarti? Quali gli autori contemporanei viventi?
Non ho autori preferiti. Come dire: qual è il tuo uomo preferito? Giovanni mi piace per un motivo, Francesco per un altro, Gustavo per un altro. Non ho neanche un piatto preferito o un luogo preferito. Lenticchie, montagna, filastrocche. Di volta in volta vado dove ho bisogno di andare, leggo quello che ho bisogno di leggere.
Che rapporto hai con le serie tv e i fumetti?
Pessimo rapporto con le serie. A parte quando è nata mia figlia e mi sono guardata tutte le stagioni di “Una mamma per amica”, ma ero un po’ dissociata. Non mi piace la serialità, nemmeno i fumetti seriali; i supereroi in particolare mi danno prurito. Sono stata una grande lettrice di fumetti da bambina, soprattutto di Peanuts, soprattutto in bagno. Fra i venti e i trent’anni ho letto molte graphic novel. Tempo fa dovevo liberare spazio sugli scaffali e ho portato le mie graphic novel a un mercatino dell’usato, scatoloni e scatoloni; la ragazza che faceva le valutazioni si è trovata “Contratto con Dio” di Will Eisner tra le mani e me l’ha restituito: «No, questo no, è troppo bello, te lo devi tenere». L’ho rimesso accanto a “Blankets” di Craig Thompson e a “Rughe” di Paco Roca. Ma i libri illustrati a cui tengo di più sono quelli per bambini. Ogni volta che rileggo Shel Silverstein piango. O “Urlo di mamma” di Jutta Bauer.
Ogni scrittore immagina un lettore ideale. O forse no. Per te esisteva un lettore ideale quando come blogger raggiungevi migliaia di lettori fissi? Se un lettore ideale esiste ancora oggi, rispetto a quanto accade sui social che sono ben diversi dalla blogosfera, il tuo lettore ideale di adesso come è fatto?
So che il mio lettore ideale esiste, ma non so chi è. È come Dio. Avverto la sua presenza mentre scrivo, ma non saprei dirti nulla di lui.
Come impieghi il tempo quotidiano dedicato alla scrittura delle tue storie?
Negli ultimi anni ho scritto solo ogni tanto, solo quando l’emozione spingeva per uscire e rompeva gli argini. Da qualche settimana mi sono data una routine più strutturata:
ogni mattina scrivo tre pagine a mano libera su un quaderno, come i vecchi che appena alzati scatarrano nel lavandino: mi serve a spurgare le scorie. Poi scrivo altre due ore durante il giorno, libere. Quello che viene viene. Di solito arrivano cose che non mi aspetto. Oggi ho scritto una lettera con la macchina da scrivere: erano trent’anni che non lo facevo, è stato bellissimo.
Quale tipo di storia non scriveresti mai?
Il romanzo ottocentesco con tre pagine di vallate.
Ti andrebbe di raccontarci quanto ti sei allenata, negli ultimi anni, per arrivare a questo nuovo libro, “Il Campo è aperto” (Baldini + Castoldi), che a mio avviso sancisce un coraggioso e potente ritorno sulla scena letteraria?
Grazie. Avevo tutte queste pagine scritte nell’arco di dieci anni, a casaccio. Centinaia. Le ho date in mano a Massimiliano Catoni, il mio editor. Ne ha buttate moltissime, anche di buone. Quelle che ha tenuto le ha rimontate, le ha corrette, me le ha restituite, ed erano un libro.
In fondo, alla fine della corsa del vivere quotidiano, tu perché scrivi storie?
Io scrivo storie? Io scrivo una sola storia, la mia, che cambia sempre. È il mio metabolismo. La vita mi accade e mi viene naturale trasformarla in scrittura. Lo faccio da quand’ero piccolissima. Perché non saprei; faccio il processo di scrivere come la pianta fa la fotosintesi clorofilliana, come il pero fa le pere.
Non vorrei farmi travolgere dal demone dello spoiler: ma il tuo ultimo libro mi ha tenuto col fiato sospeso, per diverse ragioni. Ho pensato, a proposito della patologia del padre della narratrice, al doloroso e commovente “Una vita bipolare” di Marya Hornbacher, ma anche a “Marbles. Io michelangelo e il disturbo bipolare” di Ellen Forney. Secondo te, la letteratura in prosa italiana, affronta in modo concreto certi temi, come tu appunto fai nel tuo libro?
Leggo poca narrativa. Preferisco i saggi, le fiabe, la poesia. Il saggio che più ha inciso nel mio percorso di comprensione del disturbo bipolare è stato «L’Io diviso» di Ronald Laing, un contemporaneo di Basaglia. Aspetto il ritorno di una generazione di psichiatri così, e spero di poter marciare al loro fianco con tutte le mie armi di scrittura, un giorno.