Un altro luogo comune (pare) è quello di considerare Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez un capolavoro. Ciò mi sembra semplicemente ridicolo. Si tratta del romanzo di uno scenografo o di un costumista, scritto con grande vitalità e spreco di tradizionale manierismo barocco latino-americano, quasi ad uso di una grande casa cinematografica americana (se ne esistessero ancora). I personaggi sono tutti dei meccanismi inventati talvolta con splendida bravura da uno sceneggiatore: hanno tutti i « tic» demagogici destinati al successo spettacolare. L’autore molto più intelligente dei suoi critici sembra saperlo bene: «Non gli era mai venuto in mente fino allora – egli dice nell’unica considerazione metalinguistica del suo romanzo – di pensare alla letteratura come al miglior giocattolo che si fosse inventato per burlarsi della gente… ». Márquez è indubbiamente un affascinante burlone, tanto è vero che gli sciocchi ci sono tutti cascati. Ma gli mancano le qualità della grande mistificazione («Dante fu un mistificatore?» è la domanda che un dantista tedesco deversò all’orecchio di un suo collega, come riferisce Contini): le qualità che ha, tanto per fare un esempio, Borges (o, molto più in piccolo, Tomasi di Lampedusa, se Cent’anni di solitudine ricorda un po’ Il Gattopardo anche per gli equivoci che ha suscitato nella palude del mondo che decreta i successi letterari).
Pier Paolo Pasolini in Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino, 1979, pp.127-128