«[…] tutto questo decuplicò la mia scelleratezza, la incrinò, la munì di una punta di malessere senza il quale sarebbe imperfetta. Mi trovavo in un faglia osceno. Una scure invisibile scuoteva un albero a viva forza.»
“La Grande Beune” è in realtà l’incipit di una romanzo, mai portato a termine, “L’origine del mondo” come il famoso dipinto di Courbet. È un racconto breve godibile di per sé. Il protagonista ventenne viene «richiamato in servizio» come un soldato, ma in realtà il suo compito è quello di maestro di seconda elementare. Ci troviamo nel 1961 in uno sperduto paesino della Dordogna. Da subito si riscontrano due elementi ricorrenti: il «buco» («buco del cratere», «buco ventoso del portico» ecc.) anche il fiume, La Grande Beune, è percepito come un buco, come quando l’io narrante si trova «sul labbro della falesia» sotto il quale scorrono le sue impetuose acque. E poi il bianco, il bianco candore di Yvonne, la tabacchiera del paese, verso la quale il protagonista inizia a provare un desiderio sempre più ossessivo (fa l’amore con Mado, un’amica che viene trovarlo spesso, ma la sua mente è sempre altrove, il sesso è un atto meccanico). Stupefacente la traduzione di Giuseppe Girimonti Greco che riesce a rendere l’affilata e poetica lingua di Pierre Michon in un italiano sfavillante. L’autore sarà sicuramente noto alla maggior parte dei lettori da quando, quattro anni fa, Adelphi pubblicò il capolavoro “Vite minuscole”.
A Castelnau siamo «a due passi di Lascaux»: pitture che alimentano le fantasie malate del protagonista, segni di antiche ere «oltre Micene e Menfi». Frammenti di quel periodo lontanissimo si riscoprono nei campi fangosi e gli alunni portano al maestro selci e pietre: «la sua mano con dentro quel frammento di tenebra». Yvonne è il centro dominante del racconto, l’ossessivo desiderio (chiamarlo amore sarebbe inappropriato), l’ossessione cannibale del protagonista domina la sua vita, anche quando maltratta un suo allievo, il figlio di Yvonne, frutto di un matrimonio ormai naufragato. Per interposta persona, punisce l’oggetto della sua compulsione sospesa tra Eros e Thanatos: «Soffocavo dalla brutalità. Il mondo era una carne bianca, un boccone succulento».
Mentre cammina lungo le strade per intercettare Yvonne, vestita «in ghingheri» (poi si capirà il perché di questi suoi movimenti), il narratore esplora la natura al di fuori di Castelnau. Boschi, alberi, fangosi campi; anche il fango ha una connotazione di molle languore. Il protagonista sprofonda sempre di più in un patologico erotismo e «nel profluvio delle bianche carni» di Yvonne. Una ninfa che appare dai boschi, la cui anima viene «denudata» alla fine di una sera avvolta dal gelo di novembre. Si riesce sentire pulsare un intimo desiderio cannibale («Io la sventravo» p. 29), il narratore costruisce abominevoli artefatti erotici dove Yvonne, per svilire la sua immagine, è al centro dei «lividi desideri» dei traghettatori del fiume. Ovviamente c’è una taverna: pescatori, barcaioli e gente del posto dallo sguardo sbieco e sbattuto dai fumi dell’alcol. Ovunque aleggia un senso d’imminente tragedia. E poi un finale stupendo, nella taverna, che forse sarebbe bene non rivelare, ma dove dalla biancore appare il rosa della carne. Un racconto che si chiude in un cerchio. Pierre Michon è geniale.
Enzo Baranelli