Cristo fra i muratori è un vangelo proletario. C’è il venerdì santo, giorno della morte di Geremio, e la Pasqua, l’iniziazione del bambino Paul come manovale. Il romanzo, scritto da Pietro Di Donato, figlio di migranti italiani negli Stati Uniti, è un avallo di stereotipi così perfetti da essere didascalici. Il Lavoro è la messa in opera. I mattoni pietre miliari della formazione di Paul, bambino rimasto orfano di Geremio, immigrato italiano di origini abruzzesi. Geremio, una mattina, esce per recarsi in cantiere e, a causa dell’imprudenza del suo capo, rimane coinvolto nel crollo che lo ucciderà, lasciando la sua salma cementata nella costruzione. Il destino di Paul è nelle mani dello zio Luigi, muratore dall’incedere pesante. Zi’ Lui’, come fosse dentro un’opera shakespeariana, incappa in un incidente sul lavoro subito dopo, finisce in ospedale ed è costretto a farsi recidere una gamba. Il giovane Paul rimane l’unico a poter sfamare la famiglia, con sette fratelli e sorelle. Tenta di farsi assumere nel cantiere dove stava il padre, ma trova resistenze. Finché uno dei manovali, Vincenzo, il suo nuovo «padrino», riesce a reclutarlo, in contrasto con le disposizioni governative sul lavoro minorile. Paul è entusiasta dell’acquisito ruolo pratico e si dedica alla posa dei mattoni, che gli consente di arrivare a un guadagno quasi pari a quello degli adulti nel cantiere. Il tempo per lui è accelerato, i suoi coetanei, come Louis o Gloria, appaiono e spariscono nel racconto tipo appunti rapidi, post-it di ciò che non è stato. L’America viene formandosi dalla rivoluzione industriale. I migranti italiani sono visti con la notazione razziale degli scalmanati, gli incontrollabili ed è ovvio si facciano male. La condizione dei lavoratori viene descritta come un codice di comportamento tra uomini, anzi «paesani».
Il Lavoro, con la lettera maiuscola, fa da spartiacque nella libertà delle persone, per l’intero circondario. Perché l’esistenza subordinata dei protagonisti, che portano a casa dieci o venti dollari a settimana, è l’assoluto. Quando l’assoluto si interrompe, e arriva la morte del capomastro Geremio sotto a una colata di cemento, il tempo ribalta per ognuno, come in un film di fantascienza. Paul si trova circondato dal ricordo e indossa i panni del muratore. Non lo è, però la verità è esserlo. I suoi muscoli non consentirebbero tale sforzo, ma trova un padrino che lo aiuta a guadagnare l’obolo per far sopravvivere i suoi fratelli, la madre Annunziata. Paul si rovina la vita e salva l’unica sopravvivenza possibile della condizione diffusa. Non è solo, è il mondo. Se cade, perde lui.
Scrive John Fante, nell’opera La confraternita dell’uva: «Come Paolo, che ebbe il suo momento di verità prima di Damasco, così Henry Molise aveva avuto il suo frammento d’estasi venticinque anni prima nella biblioteca civica di San Elmo. Mi fermai su un lato del grazioso edificio, salii i gradini di arenaria rossa che mio padre aveva costruito con le sue proprie mani, entrai nel foyer e percorsi a grandi passi un corridoio di scaffali fino a quel punto familiare in un angolo vicino alla finestra, vicino al temperamatite sotto il ritratto di Mark Twain, ed estrassi la copia rilegata in pelle de I fratelli Karamazov. La tenni tra le mani, sfogliai le pagine, la tenni stretta tra le braccia: la mia vita, la mia gioia, il mio sublime Dostoevskij. Magari l’avevo tradito nei fatti, mai nella devozione. Il mio amato papà se n’era andato, ma Fëdor Michajlovič sarebbe rimasto con me fino alla fine dei miei giorni».
Cristo, nel romanzo, è presente come giustizia, speranza, prossimità alla morte, resilienza. Non è un Cristo terreno, il suo stato in Terra è alterato da emissari che non hanno soluzioni concrete per i poveri. Allorché Paul chiede aiuto al prete, lui lo liquida con un pezzo di torta. Cristo in terra è umano e si trasforma solo nella morte. Il dio invocato è per avere rivalsa, comburente necessario a sopravvivere; ossia la speranza, procrastinare. E se, come pensa qualcuno, la speranza è una parola da padroni, qui sembra un termine da inermi, che si rifanno alle leggi della morale comune. L’unico distinguo con gli altri è la sensazione della scomparsa come compagna necessaria. Il padrino morirà. Moriranno. In un viaggio che diviene onirico, acquisendo il senso magico lungo la crescita di Paul, il mondo andrà avanti.
Mortale. Prosaico, poetico. Cristo fra i muratori può essere un romanzo di formazione, uno scritto sociale, un testo neorealista, surreale. Uno scritto semplice come i suoi personaggi da epica del popolo, la scrittura mai banale per l’autenticità del racconto. È la vera strada fatta dai grattaceli di New York per arrivare a essere il centro del mondo occidentale, costruire l’Occidente, affidare al proletariato il centro della Terra, senza dargliene conto. Appare la crisi del ‘29, che per i lavoratori dei cantieri è inspiegabile: cosa c’entrano, con loro, i signori buffi della finanza, che non sono sporchi di malta e non vanno in giro con le scarpe bianche, non sanno usare la cazzuola e hanno un modo di fare timido? Bisogna resistere e resistere vuol dire rimanere.
Scrive David Foster Wallace, in Infinite Jest: «Un altro modo in cui i padri influiscono sui figli è che i figli, una volta che le loro voci sono cambiate con la pubertà, invariabilmente rispondono al telefono con le stesse locuzioni e intonazioni dei loro padri. La cosa resta vera indipendentemente dal fatto che i padri siano ancora vivi o meno».
Zio Luigi si sposa. È un giorno di festa. Grazie al sussidio, per l’invalidità perenne, può riprendersi pezzi di esistenza, lontano dal Lavoro. Il paradigma è al contrario, la libertà è stare lontani dal cantiere. Non era il caso sposasse Cola, però non è più vero. Paul ha accettato un nuovo impiego, sui grattacieli di Manhattan e gli sembra miracoloso, da condividere con chi era stato essenziale. Paul è come tanti cardini della comunità e serve a far perdere la vita. C’è da festeggiare. La festa di zio Luigi è italiana. Diventa onirica come un incubo e poi rimbalza nella tarantella. Vai via, gli dice la madre a Paul negli incubi, perché il percorso di tuo padre Geremio è già tuo, è il sacrificio umano un destino prestabilito della classe lavoratrice dei palazzi di New York, dei costruttori del nuovo universo in Terra, prima di evocare Cristo. Il linguaggio da autodidatta è arricchito dalla disgrazia. I dialoghi sono immediati, le stagioni freddissime e caldissime, la fatica liquida. Il tema del libro è l’assoluto. Di fronte alla povertà, vale l’assoluto. Le vicende accadono per rottura, come la morte che apre il romanzo. Dentro o fuori. Un minuto ed è l’America.
Pietro Di Donato, nato nel 1911 e morto nel 1992, ha lasciato un romanzo autobiografico che è, per noi, un libro sulla storia dell’umanità novecentesca. Ha avuto successo internazionale, tanto da ispirare il film Give us this day, diretto da Edward Dmytryk. Il romanzo è uscito negli Stati Uniti ai tempi di Furore di Steinbeck, nel ‘39, senza sfigurare. L’editrice readerforblind, nome rubato da una citazione di Carver, lo ristampa per consegnarci uno spaccato necessario a capire il presente.
«La maschera viene messa su naso e bocca. La gola si stringe e il petto si gonfia. Oceani che ruggiscono nelle caverne delle sue orecchie. Corpo reciso e ridotto a un atomo.»
Federico Di Gregorio