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Pietro Roberto Goisis. Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela

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Tutto inizia nel momento esatto in cui veniamo al mondo. È come un big bang nel quale ci rendiamo conto che da soli non ce la faremo, che siamo in uno stato di bisogno assoluto. Scopriamo la dipendenza da nostra madre; poi da chiunque si prenda cura di noi.

Il modo in cui rispondiamo a questa esperienza originaria di attaccamento influenza relazioni e comportamenti. Qui spesso inizia la sfida tra la perfezione (ambita e impossibile) e tutte le umane fragilità. Pietro Roberto Goisis analizza le imperfezioni e le crepe nel fisiologico funzionamento della mente cercando di dare loro un senso.

Di certo, per la crescita e lo sviluppo individuale e gruppale sono necessari errori e rotture, oltre che una spinta inesauribile verso il nuovo e il cambiamento.

L’imperfezione in natura nasce proprio dall’esigenza di trovare compromessi tra interessi diversi, tra spinte selettive antagoniste. E ancora, la selezione naturale non è un agente che perfeziona e ottimizza gli organismi in ogni loro parte. Non può farlo, perché lavora in circostanze contingenti, quindi è sempre relativa a un contesto cangiante, e soprattutto è condizionata dai vincoli storici, fisici, strutturali e di sviluppo.1 La consapevolezza delle nostre imperfezioni, ancor più la loro accettazione, si intreccia in maniera articolata con il tema della autenticità, che vuol dire essere davvero quelli che si è, e si realizza svelandosi. Goisis ricorda l’esistenza di un termine specifico per definire il sentimento di inadeguatezza che si associa frequentemente alla percezione delle nostre imperfezioni: atelofobia. Ovvero la paura di non essere perfetti o di non essere mai abbastanza.

Quasi tutti ne soffriamo in maniera più o meno intensa e diversa a seconda dei periodi della vita. È frequente in adolescenza, nelle fasi di cambiamento, nel momento in cui subiamo perdite o delusioni. Quando prende una forma continuativa, associata a sintomi veri e propri (ansia, somatizzazioni varie, depressione, ideazione con inquietudine e così via) può interferire in maniera significativa con la qualità della nostra vita.

Il bisogno è la tensione generata dalla mancanza di qualcosa di necessario per soddisfare esigenze fisiologiche, psicologiche o sociali. Il bisogno è anche in continua evoluzione attraverso le varie fasi del ciclo della vita, principalmente tra spinta allo sviluppo e necessità di stabilizzazione. La risposta positiva al bisogno produce un’esperienza concreta significativa sul piano emotivo e di sostegno e guida strutturale per la persona che la vive. Ecco perché il rapporto tra i nostri bisogni e il loro più o meno felice soddisfacimento diventa così importante nello sviluppo e nelle relazioni durante l’intera esistenza. La sintomatizzazione affettiva ci porta a comprendere e condividere il mondo. Se non è presente o è inefficace durante i primi anni di vita, può creare un senso di isolamento e la convinzione che in generale i nostri bisogni affettivi siano in qualche modo inaccettabili. Quello dei bisogni è un sistema complesso e articolato intorno al quale si organizza, cerca un senso e subisce frustrazioni gran parte della nostra esistenza e delle nostre esperienze relazioni. Sottolinea Goisis come il bisogno originario sia assoluto e attivi il sistema motivazionale dell’attaccamento. Da cui poi nasce il desiderio. Il bisogno non nasce solo come conseguenza di una mancanza ma può uscire dal suo ambito autoreferenziale e diventare uno dei motori relazionali.

Inoltre l’autore analizza a fondo uno degli equivoci in cui in tanti incorrono, ovvero ritenere i bisogni dei diritti. Quest’ultimi sono gli aspetti basilari che regolano e governano le relazioni tra gli esseri umani. I bisogni nascono invece dalle nostre necessità, legittime quanto si vuole, ma soggettive e individuali. Se una persona confonde i due concetti, può succedere che esprima i propri bisogni come se fossero diritti e si senta vittima di ingiustizia se i primi non vengono soddisfatti. Oppure è possibile che, nella confusione delle lingue e dei concetti, i bisogni primari (fame, sete, sonno, accudimento, cura, salute, sicurezza – anche amore e riconoscimento) diventino in qualche modo i nostri diritti. E fin qui va bene. Il problema nasce quando non si considerano “solo” bisogni quelli secondari e quelli superiori (educazione, relazioni, stima, realizzazione, divertimento, svago, benessere economico), ma diventano a loro volta dei diritti. Avviene così una oscillazione tra bisogni che vengono occultati e negati (espressione della vergogna di aver bisogno) o dall’altro lato esibiti con tono pretenzioso (come se fossero un diritto appunto). Cosa che confonde sia chi li esprime, sia chi li potrebbe soddisfare.

Goisis ritiene fondamentale accettare la propria vulnerabilità, considerandola condizione necessaria, altrimenti il rischio è cercare altre cose, sostanze, comportamenti, relazioni malate da cui dipendere, per mettere a tacere la nostra sensibilità.

Il punto, o meglio il problema è che viviamo immersi in una cultura e una struttura sociale nella quale non è accettabile essere ordinari, normali. Bisogna essere speciali, perfetti, giusti. A risentirne sono maggiormente i giovani della cui condizione, secondo l’autore, non si parla mai abbastanza.

Oggi, un ampio segmento dei giovani tra i diciotto e i trentaquattro anni si trova in condizioni di deprivazione, intesa come il mancato raggiungimento di una pluralità di fattori, individuali e di contesto, che agiscono nella determinazione del benessere. Sottolinea più volte Goisis quanto i millennial, cresciuti in un periodo di rapido cambiamento tecnologico e sociale, sono spesso associati a una crescente sensazione di impotenza e incertezza. Uno dei principali motivi di impotenza è la situazione finanziaria in cui si trovano. Un altro aspetto che contribuisce all’incertezza è proprio il mercato il lavoro. I millennial sono la prima generazione a essere cresciuta con l’ascesa della tecnologia digitale e l’esplosione di internet. Novità che, sebbene abbiano aperto nuove opportunità, hanno avuto un impatto significativo sulla loro vita. Sono anche la prima generazione a essere cresciuta con la consapevolezza diffusa della crisi climatica. Ma per l’autore c’è un altro aspetto che li caratterizza: avere relazioni sentimentali relativamente poco stabili. Le storie affettive sono spesso precarie, poco investite, raramente suggellate da matrimoni e figli.

Ci sono state epoche e generazioni negli anni e nei secoli che hanno voluto, saputo o dovuto trovare una risposta alle difficoltà che stavano vivendo. È possibile quindi, per Goisis, che la condizione di impotenza e di incertezza che questa generazione sta vivendo possa prefigurare un nuovo cambiamento culturale ed epocale. Certamente, rispetto al passato, si sta declinando molto più sul piano individuale che su quello collettivo, ma sembra comunque essere in atto.

Il ’68 sancisce l’ingresso sulla scena pubblica di una nuova identità collettiva: le/i giovani. È una questione, quella della gioventù, marcatamente simbolica, più che materiale. Certo, la rivolta segue una linea di frattura generazionale, ma non mancano le figure adulte nel ’68 e il dato poi non vale per il movimento operaio. È soprattutto sui repertori simbolico-estetici che si gioca l’associazione ’68/gioventù. La teatralità della protesta, l’irrisione, l’irriverenza, quel po’ di narcisismo indispensabile per volere tutto e subito, l’urgenza di essere sempre e comunque dentro le cose, le giornate senza sonno e le vite nomadi: è il puer aeternus, il fanciullo mitico-magico che abita i singoli movimenti e che si è conservato un angoletto nella testa di molti ex. Forse nessuna epoca è stata più propizia al puer. Nella cultura del XX secolo la giovinezza è un valore che si ama, si odia, si invidia, si imita, si vende sul mercato degli oggetti e delle idee. L’età simbolica del ’68 è senza dubbio quella viscerale, idealista, traboccante di eros e thanatos dell’adolescenza. È una condizione giovanile che trascende ogni età anagrafica e che risiede in una viscerale domanda di senso e di un’altra vita, individuale e collettiva, così come nel terrore di ogni finitudine.2

È l’Italia dell’americanizzazione di costumi e consumi, della pubblicità, del cinema e della televisione, ma anche delle “mani sulla città” delle speculazioni urbane e suburbane. Tra le/i giovani, oggetto del crescente interesse del mercato, serpeggiano malessere e insoddisfazione, una implicita critica ai sogni di vita piccolo-borghese e consumista. Un malessere che non si traduce però in azione politica organizzata, ma più spesso in forme di ribellione erratiche verso la società dei padri e le sue regole. La rivolta dello stato delle cose inizia dentro le case, e con il nodo politico della famiglia faranno i conti, seppur diversamente, tanto il ’68 quanto il femminismo. Un rito di passaggio quasi archetipo nelle biografie giovanili del periodo è la fuga da casa, atto di ribellione e strappo per eccellenza specie per chi, dal profondo di una provincia apparentemente immobile, riesce a presentire il palpitare delle trasformazioni e desidera esserne parte. L’enfasi sul gesto teatrale, sulla protesta come rottura simbolica, sulla politica come vita e comportamento, centrale per gli sviluppi del ’68 deve molto agli stimoli portati da nuovi media, cultura e subcultura nei due decenni precedenti. Una funzione primaria della “società dello spettacolo” che il situazionismo, con la nota capacità di guardare lontano, individua come dimensione non solo dello spirito di rivolta, ma anche della sua sussunzione nel sistema capitalistico. Questa graduale incorporazione prende dal ’68 i processi di soggettivazione e di espressione di sé e li trasforma in dispositivi di disciplinamento, annullandone la spinta critica ed eversiva. Si pensi, a titoli d’esempio di più ampi processi, al narcisismo solipsistico alimentato dai social media, iperfetazione impolitica dell’espressione di sé. O, ancora, all’enorme sviluppo del settore pubblicitario (in cui tanti ex sessantottini si impiegheranno), che oggi varca una nuova frontiera, in cui la distanza fra prodotto e persona che lo pubblicizza si annulla nell’ambigua e affascinante figura dell’influencer.3

La teoria della rivoluzione silenziosa di Inglehart individua una stretta correlazione tra benessere economico, consolidamento della democrazia e mutamento valoriale. Alti livelli di sicurezza economica, fisica ed esistenziale sono positivamente legati a un mutamento culturale che porta dai valori materialisti – che enfatizzano sicurezza fisica ed economica e la conformità alle norme del gruppo – ai valori postmaterialisti. Questi enfatizzano la libertà individuale di scegliere i propri modi di vita, la libertà di espressione, l’uguaglianza e la partecipazione ai processi decisionali nella vita economica e politica. La teoria inglehartiana sul mutamento dei valori si fonda su due ipotesi chiare: scarsità e socializzazione. La prima ci dice che gli individui tendono a dare più valore ai bisogni ritenuti più rilevanti, una volta garantiti la loro utilità marginale è decrescente e si presta più valore agli altri. La seconda afferma che la struttura valoriale degli individui si forma nelle prime fasi di socializzazione (adolescenza e giovinezza), dopo di che sono difficilmente modificabili.

Per cui la generazione dei padri, socializzata in un periodo di profonda insicurezza esistenziale, aveva posto al vertice del proprio sistema valoriale valori prettamente materialistici, al cui centro c’erano le cosiddette “tre emme”: mestiere, marito/moglie, macchina. I loro figli, i sessantottini, hanno vissuto una dinamica di mobilità ascendente, sul piano economico, sociale e culturale. In questo contesto maturano una insoddisfazione nei confronti di un modello sociale che garantisce sicurezza, ma che è ancora profondamente intriso di autoritarismo e paternalismo, che si appoggia su istituzioni gerarchiche, burocratiche e verticistiche, che limitano l’autonomia e le libertà individuali.4

Per decenni, seppur con l’alternarsi di crisi e momenti di incertezza, è stata predominante la convinzione che i figli avrebbero goduto di livelli di benessere almeno pari a quelli dei genitori. Il venir meno di questa certezza sta contribuendo a modificare gli orientamenti valoriali. Il diffuso senso di insicurezza esistenziale conduce a un “riflesso autoritario” che porta a ridurre l’enfasi sui valori postmaterialisti e riportare al centro i valori materialisti. La crisi economica e sociale alimenta il supporto per i leader forti, molta solidarietà interna al gruppo, un rigido conformismo alle norme del gruppo stesso e un rifiuto degli estranei o stranieri.

Ciò significa che se per la generazione del Sessantotto non una condizione di insicurezza e di deprivazione, ma proprio il suo superamento ha gettato le basi della contestazione, le generazioni che si sono succedute a partire dagli anni Ottanta non hanno instaurato particolari rapporti di conflitto con le generazioni precedenti che condividevano con loro, nei tratti essenziali, una costellazione valoriale postmaterialista. Tradottasi in rapporti orizzontali in ambito familiare, in una propensione al dialogo e al confronto, in rapporti fondati sul riconoscimento e la reciprocità, più che su ruoli e strutture verticali di comando. La percezione di un peggioramento radicale nelle prospettive di vita si è riflessa in un prepotente ritorno dei valori materialisti, che ha trovato espressione nell’ascesa del populismo.5

Rispetto al passato, quindi, i giovani affrontano numerose difficoltà per rendersi economicamente indipendenti, raggiungere la piena maturità sociale e condizioni di vita soddisfacenti. Ma cosa vogliono i loro genitori? Si chiede Pietro Roberto Goisis.

HPI – Haut Potentiel Intellectuel (Alto potenziale intellettivo) è un fenomeno analizzato in Francia e descrivibile come la tendenza a considerare i propri figli come tali al primo buon voto e la smania di poterli classificare con quell’acronimo che conta ormai come un diploma.

Il meglio, si pensa, è destinato ai più dotati, ai più intelligenti, ai migliori. E se i figli non lo sono? Si chiede ancora Goisis.

Ecco l’inghippo: HPI non solo narcisismo, ma strumento di una competizione sempre più dura e precoce. Infatti le persone con un QI oltre 130 sono il 2.3% del totale, quindi pochissimi.

Quello degli “iperdotati” è un tema estremamente delicato e problematico. Anche in Italia è stato piuttosto di moda alla fine del Novecento. Ora sta tornando di attualità, un po’ per necessità narcisistiche, un po’ per le difficoltà a riconoscere le fatiche degli adolescenti post Covid. Con la nefasta conseguenza di non riuscire a capire le reali problematiche di un ragazzo o ragazza e la necessità di aiuti specialistici e necessari.

Si chiede l’autore se, in questo continuo guardare fuori alla ricerca del meglio, non vadano perduti elementi ben più importanti: la relazione affettiva e la capacità di riconoscere davvero chi è la persona che si ha di fronte.

Relazionarsi in maniera corretta in famiglia è certamente un modo per imparare a farlo anche fuori da essa. Pensiero diffuso è che, per impararlo a fare bene, bisogna innanzitutto riuscire a stare bene con se stessi, ritagliandosi magari degli spazi in solitudine. Ma Goisis ricorda che vi è una sostanziale differenza che separa i “momenti di solitudine” trascorsi con sé stessi e la vera solitudine.

Ci sono infinite situazioni a causa delle quali si vive e si sperimenta la solitudine. Secondo un’indagine condotta da Ipsos in ventinove Paesi, il 39% degli adulti prova sentimenti di solitudine e l’Italia è al quinto posto con un dato del 41%. Questi numeri sono sicuramente peggiorati dopo la pandemia, ma già nel 2015 uno studio condotto da Eurostat evidenziava che un italiano su otto si sentiva solo. Percentuali che salgono vertiginosamente con l’abbassarsi dell’età degli intervistati. Il 93% del campione compreso tra i tredici e i ventitré anni ha dichiarato di sentirsi solo, il 48% di aver sperimentato la solitudine molto spesso.

La solitudine è una condizione psichica e sociale. Non è una malattia in senso letterale, ma può generare malessere. Non è soltanto la questione di essere fisicamente da soli, piuttosto un senso di mancanza di connessione emotiva o sociale con gli altri. Può essere sperimentata sia in situazioni di isolamento fisico sia in contesti sociali affollati.

Ungaretti definitiva “solitudine senza scampo” lo stato emotivo di Leopardi6 che egli stesso aveva indicato come una condizione esistenziale con effetti particolarmente nefasti sulla sua salute mentale e fisica, che favorisce l’isolamento e l’incessante attività cerebrale, snervante e debilitante.7 La solitudine di Giacomo Leopardi è un’esperienza personale e intensa di isolamento e di estraniazione vissuti in modo drammatico come progressiva separazione dal mondo e dal contesto sociale e come un lento e ineluttabile sprofondamento nelle sabbie mobili dell’esclusione, nel deserto delle emozioni e nella malinconia più nera e rovinosa. Nell’isolamento si diventa estranei agli altri ma anche a sé stessi.8

Norbert Elias riflette su come le emozioni e le loro manifestazioni siano strettamente correlate agli ambiti sociali in cui nascono. In tale senso società diverse generano culture emozionali differenti e ogni società è animata dalle sue regole emozionali. Nella società contemporanea, la cultura emozionale di riferimento è quella dei media digitali che rappresentano delle vere e proprie dimensioni sociali in cui è possibile conoscere qualcuno, divulgare notizie o informazioni, commentare in totale libertà, condividere, vivere emozioni e sentimenti. Negli spazi sociali contemporanei sono cambiati i sistemi di comunicazione perché la persona non è più destinataria del messaggio ma è anche divulgatrice del proprio pensiero. La cultura emozionale nella quale giovani e adulti vivono, dunque, complica l’approccio emotivo che guida le pratiche quotidiane, anche perché la conoscenza che si acquisisce in Rete è una sorta di continua frammentazione del sapere legittimata da un insieme di opinioni emotive che finiscono con il disorientare la persona. L’avvento della cultura digitale ha modificato in termini di spazio, tempo e memoria il bagaglio formativo dei giovani e degli adulti, che si trovano così a vivere e a consumare esperienze di vita in un ambiente emotivo che sembra aver logorato il concetto di verità. L’individuo contemporaneo è come se fosse incapace di affrontare il proprio mondo emozionale e quello dell’altro, un mondo non più guidato dalla relazione interpersonale, ma mediato da dispositivi tecnologici. La persona, in altri termini, è come se fosse inadeguata nel riuscire a nominare le emozioni che prova, trovandosi impreparata a gestire sia ciò che prova sia ciò che l’altro sente. Ne consegue un analfabetismo affettivo che sempre più spesso determina la rottura delle relazioni tanto desiderate quanto consumate e deturpate.

Gli adulti inoltre oggi vivono in uno stato di “adultescenza”nell’ambito del quale rimangono eternamente giovani, continuando a ignorare le responsabilità, prima fra tutte quella di crescere e acquisire una forma che sia unica e irripetibile.9

Secondo Aristotele, la condizione della vita solitaria non è naturale nell’uomo, che è zoon politikon, cioè animale sociale, o per meglio dire socievole, in virtù proprio dell’essenza della sua anima razionale.10 E l’uomo sociale ha delle responsabilità. Responsabilità che derivano anche dalle relazioni interpersonali, utili e necessarie per gli individui.

Molti adulti, spesso genitori, sono incapaci di assumersi le proprie sacrosante responsabilità di fronte ai figli. Lasciandole a loro.

Il permanere di atteggiamenti infantili in età adulta sembra essere diventato quasi uno stile di vita associato alla leggerezza, al divertimento e alla rinuncia degli obblighi sociali. Se, come spesso accade, i modelli di riferimento adulti si vestono delle caratteristiche del “bonsai”, cioè di una sorta di genitori in miniatura, diventa difficile, per questi adulti bonsai, indirizzare i giovani nel diventare a loro volta adulti.11

Il rapporto fra adulti e giovani evidenzia oggi una deconflittualizzazione delle relazioni. Il conflitto nel recente passato ha costituito la modalità più frequente con cui le generazioni più giovani si contrapponevano a quelle adulte per affermare la propria indipendenza e la propria identità. Se, fino agli anni Ottanta, i conflitti intergenerazionali di natura culturale caratterizzavano i rapporti genitori-figli e insegnanti-alunni, i decenni successivi hanno evidenziato una progressiva e generale deconflittualizzazione che, tuttavia, non si è accompagnata a una maggiore coesione sociale. Gli adulti di riferimento, tradizionalmente individuabili nelle figure parentali e in quelle dei docenti, sembrano essere venuti a far parte, nella percezione generalizzata dei giovani, di una massa quasi indistinta di soggetti poco significativi e con quasi nessuna capacità di influenzare, di orientare, tanto meno di incidere stabilmente attraverso i meccanismi di socializzazione secondaria sulle loro esistenze.

Un effetto della erosione delle certezze e degli orizzonti di senso collettivi è il diffondersi della violenza reiteratamente agita nei gruppi – reali o virtuali – dei pari. Si evidenzia inoltre una qualche sommaria accettazione acritica della violenza nel suo espressivizzarsi routinario contro coetanei più facilmente stigmatizzabili – stranieri, omosessuali, diversamente abili ecc. – da parte delle giovani generazioni, che sfocia in una banalizzazione delle condotte violente nel mondo quotidiano dei più giovani. La soglia di accettazione della violenza, nel suo plurimo riprodursi (materiale e immateriale, agito o esperito), va però messa in relazione con la scarsa, quando non addirittura inesistente, consapevolezza della natura effettivamente violenta di quell’azione. Ecco allora che in questo Zeitgeist caratterizzato da una generale incertezza sul presente e sul futuro, la violenza di gruppo diviene una modalità sostitutiva del conflitto, proprio perché è il micro-rituale violento a definire ruoli e funzioni altrimenti inaccessibili a un numero sempre più grande di adolescenti.12 

Irma Loredana Galgano

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Pietro Roberto Goisis, Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2024.

1T. Pievani, Imperfezione: una storia naturale, Raffaello Cortina, Milano, 2019.

2E. Bellè, L’altra rivoluzione, Rosenberg&Sellier, Torino, 2021.

3E. Bellè, op.cit.

4L. Raffini, Le nuove generazioni e il Sessantotto. Tra mito e contro-mito, SocietàMutamentoPolitica, gennaio 2018, Vol. 9 (18), Firenze University press, Firenze, 2018.

5L. Raffini, op.cit.

6G. Ungaretti, Viaggi e lezioni, Mondadori, Milano, 2000.

7G. Leopardi, Lettere (a cura di R. Damiani), Mondadori, Milano, 2006.

8R. Arqués, Dialogo di Leopardi e la Solitudine, Quaderns d’Italià 22, Barcellona, 2017

9S. Perfetti, Adulti e giovani allo specchio tra crisi emozionale e cultura digitale. L’educazione affettiva come scommessa formativa, Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education, Vol. 27 n° 63, Bologna, 2023.

10R. Arquès, op.cit.

11S. Perfetti, op.cit.

12I. Batholini, L’opacizzarsi del conflitto tra giovani e adulti e l’affermarsi della violenza tra pari, Studi di Sociologia, Anno 51, Fasc. ¾ (Luglio – Dicembre 2013), V&P – Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2013.

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Pietro Roberto Goisis, Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela

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