Stalin, “il sornione georgiano” (come viene definito da uno degli autori), era più un minotauro o una cipolla? Tranquilli, nessuna presa in giro, e men che meno siete di fronte a un ritorno sulle scene del surrealismo letterario (ma a ben pensarci, forse un po’ sì). Se leggerete, comunque, capirete!
Tutto ha inizio con la seconda parte del libro, un dialogo fra due toscani Pilade Cantini, poeta e cantastorie (autore, tra le altre cose, di un Manifesto del Partito Comunista in ottava rima), e Guido Carpi, docente ordinario di Letteratura russa presso l’Università di Napoli “L’Orientale”. È proprio quest’ultimo ad affermare che parlando di Stalin, si parla di un essere dalla natura duplice: guida del proletariato internazionale e despota a un tempo; Piccolo Padre della patria sovietica ma anche tiranno che faceva omaggio agli oppositori di biglietti di sola andata per la Siberia. Un minotauro, insomma, enigmatica figura con la quale chiunque ha avuto l’onere/onore di definirsi comunista (tra cui, pare proprio i due autori) ha dovuto (e deve) prima o poi misurarsi.
Ma la cipolla (di nuovo tranquilli: non stiamo semicitando il beneamato Pedro, per il sottoscritto l’unica motivazione per cui il quiz L’Eredità dovrà essere in futuro ricordato)? Ci viene in soccorso sempre il buon Carpi: a essere tale (e cioè multistrato) è lo stalinismo, del quale i glorificatori ci narrano solamente i tratti mitologici, i detrattori quelli demoniaci. Si tratta però sempre e comunque di visioni superficiali, non del nucleo centrale, il più saporito, il più vero. Il dialogo tra il cantastorie e il professore è finalizzato proprio a questo: trovare dello stalinismo il cuore, ciò che non è né demonizzabile né mitizzabile (che poi i due ci riescano o che le loro conclusioni possano venire appoggiate in toto dai lettori è un altro paio di maniche: suvvia, siate clementi!). E sa essere molto esplicito Guido Carpi. “Ci sono diversi Stalin” se ne esce a un certo punto.
A coadiuvarci nella lettura di una discussione su un personaggio più che duplice, proteiforme, ci pensa Virginia Pili, linguista, filologa nonché appassionata cultrice di tutto ciò che sa di Russia. Le prime pagine del presente volumetto sono costituite infatti da una essenziale, ma non certo spoglia, biografia di Soso (nomignolo affettuoso datogli dalla madre, vezzeggiativo di Iosif). I 75 anni della vita del nostro sono suddivisi in sei parti, ciascuna delle quali identificata con l’attributo più confacente allo Stalin di quel periodo: il seminarista (sì, avete letto bene), il rivoluzionario, il politico, il demiurgo, il condottiero, l’ultimo Stalin.
Impreziosito dalle concessioni al toscano parlato di Cantini e Carpi, che la discussione la svolgono in un bar del pisano, il libro – libretto nella forma, non nel contenuto – è assai naturalmente completato da una decina di immagini in seppia inerenti Stalin, siano esse manifesti (celebrativi o infamanti), fotografie del Vozd (Guida) ritratto in pose plastiche o quotidiane, solo o coi compagni più una del suo corteo funebre, allorquando centinaia di persone persero la vita schiacciate dalla calca per cercare di raggiungere con la vista (ma meglio toccare) la bara di quello che già era per molti “il Gran Georgiano”.
C’è anche spazio per una gustosa serie di citazioni, pensieri e molte parole sul nostro, dette da seguaci, oppositori e improbabili ammiratori (Churchill e De Gasperi). Ma ve ne sono anche dette da persone che con Stalin – cronologicamente – non possono aver avuto nulla a che fare e che però hanno esteso concetti ascrivibili a quelli maggiormente tenuti in considerazione da Koba oltre, ovviamente, all’onnipresente lotta di classe: e cioè l’Impero e la Russia eterna. Koba? È il soprannome con cui lo chiamavano i suoi primi compari rivoluzionari, ispirato a quello di un dei protagonisti de Il parricida, 1882, romanzo dello scrittore georgiano Aleksandr Kazbegi, 1848-90.
Comunque ecco che si passa – esempio che possa fungere da guida – dal Pericle citato da Senofonte, al filosofo, teologo e mistico svedese settecentesco Emanuel Swedenborg, fino alla professione di fede marxista-leninista (che per un lungo tratto di strada è stata un tutt’uno con lo stalinismo) di Concetto Marchesi, nel bel mezzo dell’ottavo congresso del PCI (1956), dove l’insigne latinista equipara le sfortune dell’Imperatore Tiberio e quelle di Stalin, due grandi dei rispettivi loro tempi entrambi vittime di un’intensa damnatio memoriae post mortem. Ma perlomeno Tiberio Cesare venne infamato da un fior di storico come Cornelio Tacito, Stalin s’è dovuto accontentare di Krusciov (il quale non era evidentemente nelle grazie del Marchesi).
In conclusione: Stalin, più minotauro o più cipolla? Non sperate che sia io a dirvelo, a voi (anche se non siete posteri) l’ardua sentenza!
Alberto De Marchi
Recensione al libro Stalin. Il minotauro e la cipolla a cura di Pilade Cantini, Guido Carpi, Virginia Pili, Edizioni Clichy 2019, pagg. 120, € 7,90