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Planimetria sentimentale del disastro. Intervista a Graziano Graziani

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Planimetria sentimentale del disastro è il nuovo lavoro di Graziano Graziani edito da Tic nel 2021 nella collana Amuleto. Planimetria è organizzata in 40 brevi disastri. La parola dis-astro mi piace immaginarla parente della parola de-siderio: in entrambi una mancanza. E nella Planimetria è la mancanza dell’altro, dell’amata forse. Il mancato riconoscimento da parte dell’altro. Il buco nero, il buco degli sguardi che non si attraversano più. Il disastro può essere di vari tipi: ferroviario con spargimento di sangue e cadaveri, telefonico e tumorale, epidermico. Può essere materico, del disordine e del contagio. Può essere del non incontro, del non dolore e dell’oblio. Il disastro è cosmico, interiore, metafisico e alluvionale. Ma il disastro del mondo, il peggiore forse, è il non essere compresi, chiara citazione pasoliniana. Manca il disastro dell’esperimento: Planimetria mette in campo un andamento elencativo e sovrareale riuscito e rivolto a un tu che è allo stesso tempo quanto di più estraneo e interiore e esteriore e familiare possa esserci. Graziani gioca con le collocazioni degli opposti. E probabilmente la sua scrittura scaturisce da un disastro interiore, della scrittura magari. Nella Planimetria c’è il mondo di collassi e disfunzioni, e anche il reale dell’altro dentro me, che pur essendo me a me risulta estraneo: il disastro neoplastico. È dalla malattia che è partorito il mondo, dalla deflagrazione del senso. La materia e la coscienza di Planimetria sentimentale del disastro si corteggiano e si sfiorano dall’inizio alla fine. Si ripetono come in quel meccanismo di comicità estatica di memoria eisensteiniana: l’omino che disegna l’omino che disegna l’omino… Cosa c’è di più estatico, di uscita fuori di sé e creativo, del disastro?

Come nella scena finale del film, di Michelangelo Antonioni, Zabriskie Point – la televisione che non smette di esplodere – la scrittura di Graziani esplode in una sorta di zaum, di fonosimbolismo che rende strano il ripetuto significante ‘disastro’ e plasma uno sguardo nuovo sull’orizzonte degli eventi che ci tengono legati all’ovvio. Una rosa è una rosa è una rosa e la voce narrante è tutta disincarnata, e non narra, eppure ha un solido corpo, è materia pura. Ma chissà dopo il disastro definitivo cosa resterà di noi, di questo corpo, appunto, di questo corpo di scrittura che abbiamo appena letto, meravigliati e avvinti. Cosa rimarrà delle cellule, delle parole, degli spazi interplanetari, degli spasmi galattici, dei brevi sussulti del cuore? Cosa rimarrà nel niente che siamo oltre il niente in cui andremo? Sentimentale e nostalgico, il finale di Planimetria riflette il vuoto, il nulla. Come duttile certezza, però, più che angosciata attesa.

Gianluca Garrapa

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«Sul giornale c’è scritto che un treno è deragliato proprio nel momento di massima accelerazione, centrando il muro della montagna invece di infilarsi sicuro nel tunnel.» È l’inizio del primo disastro, quello ferroviario, e se pare una citazione di un fatto pubblico, si rivolta, invece, dentro il destino della voce narrante. Il lettore prenderà confidenza con questo oscilloscopio della scrittura che dalla superficie pubblica e cosmica penetra nell’esistenza singolare di un io empirico. Come nasce questa serie di Disastri? Ci spieghi il titolo?

Il titolo è una delle primissime cose che è arrivata nella scrittura di questo testo. Avevo in mente un fatto di cronaca avvenuto nel 1998, l’incidente di Eschende, il più grande disastro ferroviario che abbia coinvolto un treno ad alta velocità. L’incidente, avvenuto per deragliamento, portò allo schianto di alcune carrozze contro un pilone, provocando centouno morti e ottantotto feriti gravi. È un fatto che mi è rimasto impresso, perché solitamente non associamo il viaggio in treno a qualcosa di pericoloso. Invece, come tutti i sistemi complessi, anche il trasporto ferroviario è realizzato attraverso una rete complicata di fattori interconnessi ed estremamente controllati, un meccanismo pensato per scongiurare gli errori di funzionamento e i conseguenti potenziali incidenti. Più un sistema è complesso, più sarà in grado di prevedere imprevisti; ma proprio per questo un errore totalmente imprevisto, nel caso si verifichi, avrà probabilmente conseguenze disastrose. Questo perché, come spiega la teoria degli incidenti, non esiste un sistema immune dai rischi e dagli errori.

L’idea di associare questo concetto a un rapporto sentimentale mi è sembrato un modo suggestivo di evidenziare il carico di aspettativa e di progetto che la nostra società pone sulle questioni amorose, senza considerare quanto tali questioni – come tutte le relazioni umane – siano soggette ad approssimazioni, fraintendimenti, mutazioni, affievolimenti, possibili evaporazioni.

Il titolo, da un lato, riflette il mio gusto personale per la letteratura di catalogo, che ha orientato anche i miei libri precedenti. Dall’altro è un espediente per cercare di sintetizzare questa contraddizione, questo misto di pianificazione e imprevisto, accostando una parola fredda e razionale come “planimetria” all’aggettivo “sentimentale”, per sfociare nella deflagrazione di un esito imprevisto e rovinoso, il “disastro”.

«Dovremmo farci piccoli e muti, come di colpo divenni un giorno di fronte a te, che manifestandoti hai deviato ogni progetto e ogni percorso verso direzioni mai neppure lontanamente immaginate.» Mi sembra di notare, in effetti, nella tua scrittura la passione e l’attitudine per, così dire, l’anafora, l’elenco, la ripetizione che reca sempre una differenza – questi disastri sono individui molto simili, diversi tra loro – eppure, rispetto all’ultimo lavoro hai intrapreso un nuovo percorso: è così? ce ne parli?

La ripetizione fa sempre parte della costruzione di un elenco, ma si tratta di ripetizioni che producono piccoli spostamenti, deviazioni, che servono a creare una progressione ma anche a consolidare l’idea di un accumulo. Forse è un aspetto inevitabile della forma degli inventari letterari, che prediligo, o forse semplicemente un gusto per l’assonanza e per l’anafora, come tu rilevi. Di sicuro questo libro, per quanto molto breve, ha uno stile piuttosto diverso da quelli precedenti, non fosse altro perché il tentativo di procedere in modo evocativo – assente negli altri libri che ho scritto, o usata con estrema parsimonia – qui diventa una strada obbligata: non si può, nella realtà, farsi investire dal disastro e poi farne ritorno per poterlo raccontare. E se anche qualcosa del genere accadesse, non sarebbero sufficienti le parole per esprimerlo.

«Ha la capacità di diramarsi in regioni del ricordo che nemmeno sospettiamo, che prendono la forma di una sfocatura, di una distorsione spazio-temporale del nostro personale continuum, di quella che chiamiamo memoria.» Certi disastri annunciano uno scenario metafisico, altri disastri variano dagli spazi interstellari, alle cellule del corpo, alla strada, ai palloni aerostatici. Questo è il disastro dell’oblio, c’è anche quello dei sentimenti, della coscienza, dell’infinito: in che modo hai scelto i disastri, visto che ne hai, ovviamente, escluso alcuni, e altri, invece, paiono strettamente personali?

Non c’è stata una scelta precisa, ma una serie di immagini che si sono concatenate. Di sicuro, però, avevo intenzione di inserire delle categorie precise di disastri: quelli legati alla percorrenza, al viaggio; quelli legati alla malattia, al disfarsi del corpo; quelli interplanetari e quelli geologici, legati al ridefinirsi e allo scontrarsi della materia di cui è fatto l’universo; e, ovviamente, quelli personali, interiori. Non c’è una gerarchia precisa, ma in un certo senza questa geografia suggerisce che nessuna dimensione dell’esistenza, umana e non umana, è immune al disastro. Tutto, anzi, ne è intriso perché tutto ciò che ha forma e che si aggrega proviene da disastri precedenti che hanno innescato la reazione che ha portato a quella forma; e, probabilmente, produrrà a sua volta una deflagrazione che porterà a forme che ancora non immaginiamo. Visto da questa prospettiva, il disastro non è altro che l’apice di un processo inevitabile che non arresta il divenire, ma lo proietta prepotentemente su una scala più grande, che forse non ci appartiene più ma di cui, pure, facciamo parte a nostro modo.

«L’infezione si propagherà nel nostro corpo che opporrà una resistenza risibile, appena accennata, del tutto inadeguata a fare fronte all’impetuosità del contagio.» In questo estratto da Il disastro epidemico leggiamo un evento globale che ci ha resi tutti e tutte simili e più o meno allo stesso modo vulnerabili. D’altra parte il disastro biologico, del mondo, della carestia, non sono da meno nella capacità di farci vedere l’universale vulnerabilità che è in noi. Che rapporto ha, secondo te, la parola, veicolo di apertura all’altro, con l’attuale disastro pandemico che invece sembra recluderci nelle case, nelle nazioni, nel nostro corpo?

Quando c’è stato il primo lockdown si pensava che la chiusura sarebbe durata un paio di settimane al massimo e ricordo che qualcuno disse che in fondo poteva trasformarsi in un’occasione, per chi scrive di mestiere: essere chiusi in casa, con il mondo che sembrava fermarsi, poteva trasformarsi in un’ottima occasione per chiudere dei lavori ancora aperti e per scriverne di nuovi. Ma all’inizio della pandemia l’allerta quasi “animale” per quanto stavamo vivendo era tale che, almeno io, non riuscivo a focalizzarmi su nulla. Per cercare di raccontare questa sensazione scrissi un articolo su Minima&Moralia, “Pensare di non riuscire a pensare”. Il che è quasi un paradosso, perché per scrivere quel pezzo usai le parole per tradurre emozioni e pensieri. Ma in fondo la funzione della parola è proprio questa, quella di permetterci di mettere a fuoco, distinguendole, questioni che altrimenti sarebbero aggrovigliate e non del tutto intellegibili. È un processo, attraverso il quale si può provare a dare ordine alla realtà, o a fare i conti con il fatto che non sempre ci si riesce. Di fronte a fatti globali, a profonde trasformazioni, a crisi interiori ed esteriori – e la pandemia è stato un po’ tutto questo – ci rendiamo conto in modo profondo di questa capacità della parola.

«Chissà che cosa resterà oltre noi, che non saremo più niente, di quello che provammo e che ci fece più grandi delle piccolezze che eravamo.» Poi l’epilogo: la forza della scrittura, di questi disastri, sta nel ribadire la fragilità umana, l’insignificanza del tutto e, senza concedere una soluzione spirituale, ci fa partecipi dell’ineluttabile, ma evitando toni allarmanti. Tutto smetterà di essere, ammesso che pure questo che siamo, sia reale davvero, e sarà la quiete, forse. Allora che senso ha scrivere? E cosa compulsa uno scriba a lasciare la fragilissima memoria di sé che poi non sarà più?

A chi criticava i sui modelli economici dal punto di vista della loro tenuta nel tempo, Keynes rispondeva ironicamente: “Sul lungo periodo saremo tutti morti”. È salutare che il pensiero contemporaneo si stia allenando a una prospettiva non antropocentrica, dove l’esistenza umana viene ridimensionata e ricondotta a cornici più ampie, dove il suo valore è marginale o addirittura nullo. Nello stesso tempo, però, noi viviamo questa porzione di tempo che è insignificante rispetto alle ere geologiche o al tempo astronomico, tuttavia questa porzione insignificante è per noi tutto quello che c’è. Si scrive perché ha importanza farlo, qui, ora. Per chi scrive e per chi legge. Ma anche perché, forse, un po’ di importanza ci sarà non solo ora, ma anche poi, perché gli esseri umani vivono nella storia e nelle relazioni che hanno con gli altri. Le parole hanno la capacità di proiettare il pensiero di chi le ha scritte un po’ più in là, a volte anche oltre la sua esistenza terrena. Qualche volta solo per pochi anni, qualche altra volta per molti, in qualche caso non avviene. Non ha importanza; l’importanza è mantenere viva questa possibilità di trasmissione.

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Graziano Graziani, Planimetria sentimentale del disastro, Tic ed. 2021, collana Amuleto

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