Questa prefazione, inedita in Italia, fu scritta da Pol Vandromme per la nuova edizione del suo Céline, edita nel 2001 dalle Éditions Pardès a cura di Marc Laudelout e Arina Istratova, riedita da Italia Storica.
#
Questo piccolo libro fu pubblicato agli inizi del 1963, l’indomani della morte di Céline. Tre saggisti mi avevano preceduto, Robert Poulet nel 1958, Marc Hanrez e Nicole Debrie nel 1961.
Quale era nel 1963 la situazione di Céline? Grossomodo questa, nell’opinione della maggioranza: non poteva essere un grande scrittore perché era un farabutto1.
Quando Céline fu preso in esame dai pedanti glossatori universitari, si ricorse a un sotterfugio di un manicheismo specioso: rimaneva un farabutto, ma si acconsentiva a riconoscere che non lo era stato sempre, almeno nelle sue opere. Si aveva quindi il buon Céline, quello del Viaggio e di Morte a credito, e il cattivo, quello di Bagatelle per un massacro e La scuola dei cadaveri.
Restava un passo da fare. Claude Simon, che nulla predisponeva a questo compito, ci riuscì inaspettatamente. Intervistato da Philippe Sollers su “Le Monde” del 19 settembre 1997, oserà dichiarare:
Mi ricordo che si diceva di Céline che era un farabutto. Ho detto: un farabutto? In arte, questo non significa nulla, un farabutto”. Tutto come se avesse letto e fatto sua la cronaca di Guy Scarpetta nel “Le Nouvel Observateur” del 30 gennaio 1997. “La vera letteratura non è mai politicamente corretta. Non è mai dalla parte dei perbenisti o dei buoni sentimenti. Il suo interesse principale è semmai l’esplorare l’opposto del consenso, il non-detto del corpo sociale, la parte maledetta della comunità.
Mi sembra il mio saggio d’allora sia afflitto da due lacune. La prima: dovevo piegarmi ai limiti di una collana di opere divulgative, destinate ai liceali e ai loro professori; si trattava, in un numero di pagine stabilito in precedenza (un centinaio circa), di presentare uno scrittore proscritto, dallo status letterario incerto e dalla sopravvivenza dubbia; quindi, di spiegare perché meritasse, nel suo secolo, di essere già considerato come un classico. La seconda: una parte notevole dell’opera di Céline mi restava sconosciuta; né Rigodon né il seguito di Guignol’s band erano stati pubblicati, impedendomi di approfondire ciò che avevo intuito da Normance: il compimento di un rinnovamento del linguaggio e del romanzo.
Ciò malgrado, il saggio, da quel che ricordo, fu ricevuto senza che l’ostilità cospirasse a maledirlo, e il silenzio a trascurarlo. Solo la disonestà intellettuale avrebbe potuto attribuirmi dei secondi fini sospetti. Pronunciavo inequivocabilmente il mio orrore dell’antisemitismo (la mia esperienza faceva il pari con quella di Louis Malle in Arrivederci ragazzi), passione assurda e delirante prima della guerra, passione abietta e micidiale durante l’Occupazione. Fu per me una felice sorpresa constatare che la mia interpretazione di questo aspetto dell’opera céliniana (l’ebreo come il cinese, rivelatori allegorici delle paure di un immaginario sconvolto) fu apprezzata dagli esperti, al punto da essere ripresa da Dominique de Roux ne La Mort de L.-F. Céline [tr. it. Lantana 2015, NdC].
Avrei molto da aggiungere a questo breve saggio (ho provveduto nelle mie opere successive, riunite dalle edizioni L’Âge d’Homme nel mio Céline et Cie), ma per l’essenziale, non toglierei gran che.
Voilà. Marc Laudelout dà una nuova chance a un testo che non gli è parso quindi troppo indegno per essere ripubblicato. La sua indulgenza rivaleggia solo con la sua generosità. Avrebbe dovuto essere la mia prima parola. Sarà l’ultima; maniera paradossale, ma evangelica, d’essere la prima.
#
Ricordo di Pol Vandromme
Nato a Gilly, in Belgio, nel marzo 1927 [e morto il 28 maggio 2009], Pol Vandromme è stata una delle migliori penne della letteratura francofona. Lascia un’opera copiosa e multiforme: biografie, saggi, pamphlet, articoli di critica letteraria, memorie e anche un romanzo, Un Eté acide. Molti di questi lavori sono stati premiati, in Belgio e Francia.
Il suo anticonformismo, la sua indipendenza gli impedivano di rispettare i tabù, anche quelli non scritti. Fu così il primo a consacrare un saggio a Rebatet, nelle prestigiose Éditions Universitaires. E a perseverare con un Drieu, un Céline, un Brasillach (quest’ultimo con l’editrice Plon). Senza contare due Marras, un Nimier, un Sagan, un Jacques Perret, un Le Vigan. Aveva il dono di cogliere, in un’opera, l’essenziale della personalità del suo autore, nel collocarlo nella sua verità. Il suo stile era scintillante, i suoi scritti cosparsi di formule indovinate.
Era un gentleman, in tutti i sensi. Ci mancherà.
Jacques Aboucaya, nel Bulletin Célinien dedicato alla scomparsa di Pol Vandromme (n° 311, settembre 2009).
Pol Vandromme si occuperà nuovamente di Céline in Du Côte de Céline, Lili, dedicato a Lucette Almazor, in Marcel, Roger et Ferdinand, sui rapporti tra Marcel Aymé, Roger Nimier e Céline, e in Robert Le Vigan e La France Vacharde, saggi riuniti in Céline et Cie.
1 Notiamo come dopo una stagione di rinnovato e vivace interesse per le opere e la vita di Louis-Ferdinand Céline sul finire degli anni 1990 e inizio anni 2000 in Francia e altrove, negli ultimi anni la fortuna critica di Céline è largamente regredita tornando al punto citato da Pol Vandromme in questo passo, segnatamente a causa della “scorrettezza politica” dello scrittore, NdC.