Sono quattro, tutte lombarde, le autrici protagoniste della terza edizione del premio letterario PrimaveradellaPoesia: Alda Merini, Antonia Pozzi, Piera Badoni e Camilla Cederna. Ideato e organizzato da Francesca Parvizyar, il premio ha il patrocinio del Comune di Milano, del Centro Nazionale di Studi Manzoniani e di «Italian Poetry Review» (Columbia University, New York). Un concorso tradizionale nella forma, audace negli intenti. Oltre a mettere in luce giovani poeti, l’intento del premio è anche quello, infatti, di risvegliare l’interesse critico per le quattro autrici del Novecento che hanno regalato preziose pagine alla letteratura e le cui opere hanno spesso pagato il conto di una prospettiva distorta, legata a mode passeggere e mai scrupolosamente critica. La cerimonia di premiazione si svolgerà a Milano, nel mese di marzo, in occasione della Giornata Mondiale della Poesia.
Ne parliamo con Matteo Mario Vecchio, studioso di Antonia Pozzi e di Piera Badoni, curatore scientifico e vicepresidente del premio.
Come vicepresidente del Comitato Scientifico del premio, di che cosa ti occuperai esattamente?
Sono soprattutto un lettore; rifiuto ulteriori definizioni. A questa edizione del premio, la terza, sono particolarmente legato poiché ne ho compilato il bando e strutturato i comitati, d’Onore, Scientifico e degli Artisti ospiti; ho soprattutto voluto che fosse intitolata, oltre che ad Alda Merini e ad Antonia Pozzi, a Piera Badoni e a Camilla Cederna. I Comitati sono intesi come organismi che potranno ulteriormente arricchirsi – come spero – di altri amici; ciò che più mi sta a cuore è la condivisione, il fare le cose insieme, il discutere democraticamente. La lettura dei testi giunti sarà dunque ampiamente collegiale. Un Comitato Scientifico non è, proprio per la sua natura «scientifica» e oggettiva, un sinedrio; pertanto il mio compito, oltre che di curatore del premio, è quello di ogni altro membro dei Comitati: leggere, rispettare i testi e la vita che ai testi è affidata, accettare le opinioni di tutti, ascoltare gli altri, decidere con garbo e attenzione, senza valutare né giudicare. Chi invia un mannello di poesie, affida a chi leggerà una parte della propria vita; un autore, qualunque sia la sua competenza (tecnica, soprattutto), sottopone, a chi valuterà la sua scrittura, se stesso.
Quattro donne lombarde. Che cosa le accomuna, oltre alla poesia e alla medesima provenienza regionale?
Le quattro Signore – come le ha definite Franco Buffoni – sono accomunate da un’esistenza essenzialmente estranea a consolidati canoni sociali. Piera Badoni, per esempio, è stata l’efficiente segretaria del padre, industriale siderurgico di livello internazionale. Ma è stata anche e soprattutto una donna che si è scritta, e in questa pratica (diffusa nel suo àmbito familiare) ha attuato una forma di esplicata chiarificazione di sé tutt’altro che auto-consolatoria, grazie alla quale anzi ha ripercorso le articolazioni del proprio problematicismo esistenziale, comprendendolo da tutte le possibili angolazioni; problematicismo pur sempre ricondotto – con una tenace lettura ironica delle cose e della stessa esistenza – all’interno di un alveo di partecipazione ai rituali sociali della propria famiglia (di qui, anche, la sollecitazione a registrarne la memoria), di cui la grande casa paterna e il suo parco sono grata estensione simbolica. La scrittura, dunque, come forma di quieta trasgressione, di spazio per sé – del resto Giancarlo Vigorelli, citato da Vittorio Sereni, fa nel caso di Piera Badoni il nome di Emily Dickinson. In effetti, si tratta di poetesse molto simili, anche in riferimento all’ambito familiare: entrambe hanno avuto un padre severo e amatissimo; entrambe hanno vissuto e agìto per l’intera vita all’interno di un contesto familiare sì dialettico e sollecitante, ma sostanzialmente proteggente e vitale, simbolicamente rappresentato da una casa avìta, sede della tradizione e della identità familiare, e da un grande parco piantumato; per entrambe la lente attraverso cui guardare il mondo è acutamente ironica e chirurgica. È proprio in questo che si differenziano Piera Badoni e Antonia Pozzi: lo sguardo ironico, e per questo lucidissimo e acuminato, della prima non è accostabile alla potenzialmente offuscante assolutizzazione del mondo (della poesia stessa, di sé) operata dalla seconda. Piera Badoni, a differenza della Pozzi, non ha fondato se stessa sulle altrui conferme riguardanti la bontà della sua poesia. Le ha forse ricercate, senza tuttavia assolutizzarle; non le sono state, come invece è accaduto per la Pozzi, essenziali, e drammaticamente tali, per l’economia esistenziale e vitale. I versi di Piera Badoni e Antonia Pozzi sono stati colti da Anceschi e, pur a latere, da Pasolini, i quali, pur senza approfondirne lo studio, hanno notato la cifra inconclusa, sperimentale, non pienamente assestata, della loro opera; ancor più Eugenio Montale.
Per Montale l’opera di Antonia Pozzi costituisce un caso singolare. In che cosa si differenzia dai poeti dell’epoca?
È significativo che il maschilista Eugenio Montale comprenda la Pozzi molto più di quanto abbiano fatto altri studiosi e soprattutto certe studiose. Da un lato Montale ritiene importante riconoscere – e sa riconoscere – le peculiarità, le alterità dell’opera della Pozzi, dall’altro per lui diventa decisivo non sottrarla (con l’intento programmatico di rivendicare per lei una presunta, soprattutto a livello morale, «eccezionalità») al contesto in cui ha visto la luce. Soltanto non sottraendola a esso, pertanto, è possibile far di lei emergere, secondo Montale, l’autentica natura.
Come hai anticipato, quest’anno il bando si arricchisce di due sezioni: una intitolata a Piera Badoni e l’altra a Camilla Cederna. Come mai questa scelta?
Ho voluto sollecitare l’interesse verso una poetessa, Piera Badoni, poco nota e in vita appartatissima (il che, va detto, l’ha preservata dalle distorsioni critiche che hanno coinvolto, per esempio, in parte la Pozzi e la Merini), e verso una intellettuale complessa come Camilla Cederna. Il premio non ha tuttavia una connotazione di genere; è ideologicamente aperto, privo di dogmatismi: se così non fosse, non sarei qui a parlarne, né lo curerei.
Un premio di poesia è sufficiente a mantenere viva la loro memoria?
No, ma lo scopo di questo premio è soprattutto sollecitare la compilazione di studi rasserenati su di loro. Mi riferisco soprattutto ad Antonia Pozzi e a Camilla Cederna. Per motivi molto differenti, non si può affermare che la tradizione critica che le riguarda sia serena. La «memoria» è operativa, è facoltà che rigenera, che spalanca, che offre angolature; il «ricordo» ha un sostrato fondamentalmente feticistico e autoreferenziale. Ti sono pertanto grato per aver usato la parola «memoria». La Merini e la Pozzi sono due poetesse «celebrate», più che laicamente studiate – non studiate cioè con il rigore di un medico legale. «Celebrare» implica una operatività minima rispetto all’oggetto su cui si intende operare; studiare, invece, e comprendere, impone una convivenza, una partecipazione, una prossimità, a volte poco sostenibili a livello esistenziale. L’opera di un autore sta, e resiste, nel momento in cui essa può sussistere senza intromissione alcuna di meri puntelli biografici, che inclinano a una distorta lettura moralistica, risarcitoria, proiettiva, sublimatoria. Non «amo» Antonia Pozzi, né la difendo, né intendo, studiandola, risarcirla moralmente; nutro per lei il medesimo rispetto, l’assoluto rispetto che nutre un anatomopatologo nei confronti del cadavere cui ha il dovere etico di praticare una autopsia (e qui si consuma l’osmosi, a mio avviso, tra un approccio laicissimo, scientificamente connotato, e la vocazione etica, viscerale, del lavoro dello studioso). Diffido per mia natura di chi scrive recando in mano la spatola di Cézanne; preferisco l’inesorabilità del bisturi. Emily Dickinson che esorta il chirurgo a stare attento poiché sotto le sue dita si dibatte una – o la – vita esorta anche, e non indirettamente, i filologi a fare altrettanto.
A prescindere dal premio, si può parlare di «poesia al femminile», intendendo con questa espressione una categoria letteraria? La poesia delle donne ha una sua specificità?
Non so rispondere. Forse una cifra che accomuna le donne è la radicalità, pur talvolta ironica (consapevole cioè della strutturale relatività delle cose e dello stesso sé), che riguarda anche le pensatrici. Edith Stein, Simone Weil, Etty Hillesum, Hannah Arendt, Teresa di Lisieux, Sylvia Plath, Anne Sexton, Cristina Campo, Gemma Galgani, Maria Maddalena de’ Pazzi, Gianna Beretta Molla – per fare nomi di «imperdonabili», cioè donne che sono state, pur senza egotismi, se stesse a oltranza. Radicalità dovuta a millenni di sottomissione al mondo maschile, per cui una donna, per essere, ha sentito il dovere di esprimersi con una forza, appunto, radicale, con una assolutezza forse ignota alla ferialità del mondo maschile. Si abusa forse, oggi, dell’espressione «se stesso», e della parola «trasgressione». Entrambe sono inconsapevolmente confuse con «omologazione», poiché talvolta – anzi, sempre –, rispetto al «mondo», essere «se stessi» e «trasgredire» significa, di fatto, aderire a modelli omologati, santificati dai mezzi di comunicazione. Penso che trasgredire sia pensare con lucidità estrema, senza sottomettersi ad alcuna autorità non percepita come effettivamente etica; trasgredire è ascoltare. Trasgredire è questo stesso «esserci», questo anelito a condividere per poter essere al mondo, e imprimersi nel mondo – l’«esserci» degli imperdonabili, appunto.
La partecipazione a questa edizione del premio è aperta anche ad autori non di madrelingua italiana, i quali – si legge nel bando – «possono concorrere inviando elaborati nelle loro lingue d’origine, con la relativa traduzione in lingua italiana. È inoltre possibile inviare elaborati in uno dei dialetti parlati nella penisola italiana». Che cosa pensi della poesia dialettale?
È una poesia che attinge e colma quel dislivello che interviene tra lo sgorgo e la mediazione. È parola che connota – preziosamente – un dato contesto. In famiglia il dialetto connota, isola taluni movimenti di conversazione, talune affermazioni, taluni commenti forse catoniani. Ma è, appunto, lingua affettiva, o ancor meglio identitaria. Le cose preziose si dicono in dialetto. Non è tuttavia lingua di immediatezza, ma di ventilabro: la cifra cardiaca del dialetto transita attraverso modelli culturali che la impregnano e legittimano.
Poeti, che hanno scritto «cose preziose» in dialetto, cui sei legato?
Carlo Porta, Franco Loi, Bianca Dorato, Delio Tessa, Pierluigi Cappello, Pier Paolo Pasolini. Per scrivere in dialetto, tuttavia, bisogna essere, secondo me, prima ancora che «poeti», uomini.
Per informazioni sul bando https://matteomariovecchio.wordpress.com/2014/03/18/premio-primaveradellapoesia-2014-iii-edizione-bando-a-cura-di-matteo-mario-vecchio/