Partiamo da un aneddoto.
Giorni fa ho provato, su Facebook, a dire, sinteticamente e apoditticamente come si confà a un ‘social’, la mia su Pier Paolo Pasolini.
Pur essendo abituato a ricevere risposte aggressive ogni volta che provo a mettere in dubbio tutte le indiscutibili qualità di uno dei due santini ufficiali della sinistra Sinistra italiota (l’altro è Berlinguer, benignamente assurto a padre nobile di ogni lotta per la giustizia e l’uguaglianza), questa volta sono rimasto attonito dalle risposte.
I feed back sono stati stupefacenti: si passava dal neo-aristotelico: “Pasolini non si discute. Punto”, al ben più diretto e minaccioso: “sei un figlio di puttana”.
Vi risparmio i passaggi intermedi, spesso declinati sulle note del profetico, o dell’evidente ma indimostrabile, e via così con tutte le sfumature del pensiero analogico e animistico-mistico, o para-integralista (esiste in Italia un ‘integralismo pasoliniano’, dunque?), e tutte le grida di masnade di ‘groupies’ furenti per l’offesa portata all’oggetto di ogni loro ammirazione.
Quasi che in Italia, oltre al comune senso del pudore, esistesse un “comune senso del Pasolini”, violando il quale s’incorre nell’indignazione generale e nel pubblico ludibrio.
Ho deciso allora di sviluppare meglio qui quanto accennavo là.
Adoro Galileo. Dunque questo è il mio: eppur si muove.
Proverò a mostrare, dunque, come – imho – nell’analisi dell’opera artistica, saggistica e nell’analisi politica di PPP spesso scatti un riflesso condizionato, che impedisce di allocare contestualmente l’oggetto dell’analisi, che fa ignorare dati evidenti, che induce ad applicare categorie ad usum delphini.
Tutto per costruire una sorta di “santino”, qualcosa di apotropaico che ci dia coraggio e non ci faccia sentire soli. Uno scongiuro.
Magari voi non ci credere, ma scrivendo quello che segue sono stato convinto di farlo per Pasolini e non contro Pasolini. Che fu a mio parere letterato mediocre e conservatore e intellettuale fondamentalmente reazionario e borghese, ma che pure avrebbe diritto a essere trattato come merita: da artista ed intelletuale e non da scongiuro…
Primo esempio: si fa un gran parlare, ormai da decenni, dell’articolo che PPP pubblica sul Corriere della Sera, nel quale afferma di conoscere i mandanti di quelle che saranno chiamate le “stragi di stato”, ma di non avere le prove per dimostrarlo. Sarebbe questa la conferma di un PPP artista impegnato, coraggioso intellettuale ‘corsaro’ che denuncia i mali del ‘potere’.
Ma è davvero così?
Intanto, l’affermazione è, in sé, insensata e piuttosto ambigua: perché non farli questi nomi, in ogni caso?
Che senso ha gettare il sasso e poi nascondere la mano?
La democrazia ha bisogno di prove, Zola cercò prove per difendere Dreyfus, non si limitò ad affermazioni generiche e ambigue, fece nomi e cognomi. O almeno ha bisogno di schiette denunce. Nessuno ha mai avuto la prova che Pinelli sia stato ucciso, ma sono stati in tanti a indicare i colpevoli nei funzionari di polizia che lo stavano interrogando nella Questura di Milano. Con tanto di nomi e cognomi.
Ma c’è di più: PPP scrive queste cose sul Corriere della sera, foglio ufficiale delle forze conservatrici e borghesi italiane. E non è particolare irrilevante, anzi.
Se davvero PPP sa – diciamo così, metaforicamente – chi è il mandante delle stragi, beh, allora sa anche – ancora metaforicamente – che questo qualcuno è tra chi gli paga lo stipendio e gli dà spazio sul più diffuso quotidiano italiano, lo stesso che pochi anni prima, non più di 40, inneggiava alle leggi razziali, che ha coperto da sempre le stragi poliziesche, da Tambroni in avanti, proprio lo stesso che fu tra i primi a gettarsi a capofitto sulla pista anarchica per la strage di Piazza Fontana, eccetera, eccetera.
Perché non si dimette subito dopo averlo scritto, allora? O perché non scrive altrove quanto sa (o quanto non sa)?
Gli sarebbe bastato chiedere e qualsiasi quotidiano italiano, magari uno meno compromesso con i depistaggi spioni dei nostri servizi segreti collusi, gli avrebbe dato spazio.
Oppure PPP non sa nulla più di quanto, più o meno, tutti già sanno, o sospettano e che molti hanno già denunciato prima di lui e ben più chiaramente; e allora fa retorica, sfrutta, populisticamente, il dolore di una nazione per costruirsi un profilo da ‘profeta’.
Non sarebbe bello…
La faccenda è chiara e distinta, eppure a nessuno viene in mente di rilevare una contraddizione tanto immensamente evidente.
Nessuno contestualizza, si fa finta di nulla, come se il fatto che codeste affermazioni siano pubblicate sul Corsera non dovesse, né potesse, avere alcuna influenza sul nostro giudizio critico e politico su di esse. Quantomeno puerile come atteggiamento.
Ancora: altra vulgata, altro giro.
Pasolini profeta illuminato dei guasti indotti dai mass media? Bah…
Intanto già da decenni studiosi del calibro di Benjamin e Adorno avevano riflettuto a lungo sull’importanza dei media nelle società ‘moderne’.
Il ‘fascismo televisivo’ di PPP, era solo la seconda puntata, attardata e scopiazzata, di quel ‘fascismo (e di quel nazismo) radiofonico’ di cui a lungo Benjamin aveva parlato in uno dei suoi saggi più noti.
Ma non basta: è arrivata da poco anche in Italia l’analisi acutissima di Marcuse e del suo “uomo a una dimensione”.
Un intellettuale come Pasolini certo conosce tutto questo, né farebbe differenza, per quanto qui ci interessa discutere, se lo ignorasse.
C’è ben poco di profetico nell’analisi pasoliniana dei media: direi piuttosto che ci troviamo di fronte alla vulgata ‘pop’ e piuttosto provinciale di quanto già altri avevano visto, denunciato, analizzato ben più efficacemente di lui. Di profeti, in generale, non abbiamo che farne, di falsi profeti poi…
Ma questo dato, che è dato storico e inconfutabile, è lestamente evitato da tutti i commentatori, non solo dalle ‘groupies’ e dai fanatici di cui sopra, anche da studiosi suppostamente seri ed esperti.
Parliamo un po’ della celeberrima poesia sugli incidenti di Valle Giulia? Dell’affermazione – scandalosa, ma ‘verissima’ – secondo la quale gli unici proletari in piazza sarebbero stati i ‘celerini’?
Essere ‘proletari’, checché ne pensasse PPP, non è – marxisticamente e storicamente parlando – sinonimo dell’esser parte della classe operaia: da millenni e millenni i forti usano i deboli, i ricchi usano i poveri, per uccidere, torturare, sottomettere i deboli e i poveri.
Che quei celerini di Valle Giulia fossero di estrazione popolare, mentre qualcuno tra i manifestanti (mica tutti, come faceva credere PPP) fosse figlio di borghesi non ci dice proprio nulla sulla collocazione di classe di chi si affrontò davanti alla Facoltà di Architettura di Roma. Né ha caratteristica alcuna di novità.
Wu Ming 1, intellettuale serio e certo non disponibile al ‘santino’, in un suo recente intervento su Internazionale sostiene che il senso di quei versi piuttosto ‘sfortunati’ fosse altro.
Può darsi, di certo PPP non vede nulla di quanto sta succedendo all’Italia sua contemporanea, che è ormai quella dell’operaio massa, ben più acutamente analizzata da intellettuali come Balestrini, Moroni, Negri.
Lui, PPP, resta legato a un’immagine di un’Italia che non c’è più da tempo, convinto, a torto, che ciò che conti non sia la ‘coscienza’, ma la ‘classe’.
Lui fa la lezioncina di sociologia agli studenti, intanto c’è chi si arma e passa alla clandestinità. Può darsi che Wu Ming 1 abbia ragione e PPP si augurasse che i celerini di Tambroni, Andreotti e Kossiga cambiassero di colpo casacca e si schierassero con lavoratori e studenti, ma certo era ben ingenuo come analista politico ed anche come intellettuale. Era cieco, anzi.
Forse anche in questo caso contestualizzare aiuterebbe molto a comprendere il valore e il senso delle affermazioni di PPP. Darebbe a affermazioni come “ “A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri” il loro vero valore. Dalla parte del ‘torto’ erano gli studenti, quelli che erano schierati con la ‘ragione’ (di Stato) erano i celerini. Roba da disinformatjia…
I proletari per PPP sono, insomma, simboli su due gambe della sua poetica zoppa, li cerca in borgata, li ama, li angelicizza in poesia e in celluloide, ma evita di mischiarcisi, se sono in corteo.
Se sono in corteo, specie se sono ‘terroni’, contrastano quell’immagine di istintività arcaica che lui va svolgendo nelle – opportunamente ed opportunisticamente – dimenticate e desolanti “Lettere a Gennariello”, anch’esse allocate presso il Corsera.
E poi: Pasolini innovatore della nostra letteratura? Coraggioso sperimentatore e sommo poeta? Ancora bah…
L’analisi stilistica e letteraria del valore innovativo delle poetiche pasoliniane potrebbe essere sintetizzato qui sotto l’insegna del: vorrei, ma non posso (o non son capace di).
Due esempi veloci: Pasolini poeta si sente ‘sperimentale’ e tenta una sua strada a cavallo tra tradizione delle forme chiuse e verso-liberismo.
Al suo orizzonte c’è il magistero pascoliano e la sua inarrivabile perizia metrico-prosodica. Ancora una volta, se non si contestualizza adeguatamente, si rischia di incorrere nell’abbaglio per il quale la sua EVIDENTE sciatteria prosodica sarebbe il risultato di un preciso progetto, mentre è solo il residuo di un’operazione attardata e di un tentativo fallito.
Mentre Pascoli operava ai confini del XX secolo e forzava dall’interno una Tradizione ben viva e operante, rinnovando e aprendo strade nuove proprio coniugando rispetto della tradizione e sua, implicita, violazione, PPP scrive a XX secolo ben avanzato, in epoca di verso-liberismo imperante.
Il suo sguardo è volto indietro, il suo tentativo di portare a casa capra (l’endecasillabo ‘tradizionale’) e cavoli (la sperimentazione) è un tentativo regressivo, che produce solo sciatteria metrica che, per altro, spesso gronda di quella retorica ‘poverista’ e ‘umanista’ tanto felicemente evitata da altri, che pure gli furono vicini, come Fortini, Roversi, o Leonetti.
Una rilettura delle pagine di Officina darebbe a tanti l’occasione di analisi ben più fondate.
PPP, peraltro, ben cosciente dei limiti della sua sperimentazione poetica, non era, a quanto mi risulta, particolarmente pacifico con chi gli stava sottraendo la ‘careghetta’ sperimentalista su cui aveva provato a sedersi: non bastasse la strepitosa risposta in versi di Sanguineti (“Una polemica in prosa”, si intitolava), un Sanguineti che pure aveva guardato con apertura a quanto faceva il friulano, il buon PPP in quei giorni attaccava i futuri Novissimi con una serie di distici aspri e provocatori riportati in corrispondenze private tra Porta e Giuliani, ancora inedite ma che ho avuto la possibilità di leggere. C’era qualcuno che rischiava di risultare più ‘sperimentale’ di lui e l’angelico PPP si impegnava a fondo per delegittimarlo.
D’altra parte la sua celeberrima intervista a Pound, in cui il maestro americano resta sostanzialmente lontano da lui, sordo alle sue domande, il suo fallimento in quanto ‘intervista’, dicono tanto.
Proprio a Pound guardavano in quegli anni i Novissimi, ma con vicinanza ben più pregna di significato ed efficacia poetica.
Vale lo stesso per la prosa: qui il modello, altrettanto inarrivabile, è Gadda.
Ma anche in questo caso i due romanzi pasoliniani restano dei tentativi abortiti, a metà tra narrazione tradizionale, schiettamente ottocentesca, e timidi tentativi d’innovazione. Il suo ‘gergo’ è poco più di una testimonianza sociologica, senza mai avvicinarsi alle vette dell’impasto linguistico di quel reazionario conservatore del Gadda.
Niente di particolarmente diverso da Metello, per intenderci.
Lo sguardo, paternalista, è quello dell’autore. Il personaggio è una marionetta che ha solo il compito di confermare, con i suoi comportamenti le ipotesi, e la weltaschauung autoriale.
La borghesia viene, invece, distrutta e smascherata dal borghesissimo Gadda, mentre il compagno progressista PPP fallisce miseramente l’obbiettivo.
No: su quanto affermò sull’aborto, non dirò nulla. Non ne vale la pena. Questa me la risparmio. Mi affido alla vostra capacità d’analisi, soprattutto a quella delle donne che “hanno intelletto d’amore”.
Dirò invece qualcosa sulla sua orribile, ingiusta e probabilmente ancora invendicata fine. Anche in questo caso lo farò nel tentativo di spiegare come, a mio avviso, quando si parla di PPP in Italia si perda spesso il lume della ragione.
Due premesse.
Primo: stimo e rispetto profondamente quei colleghi che sono convinti che dietro l’omicidio di PPP fossero una serie di trame oscure e mandanti ancora sconosciuti, trame legate a quanto andava scrivendo nel suo ultimo, inconcluso romanzo, Petrolio.
Ho firmato e continuerò a firmare i loro appelli perché le indagini non si chiudano e si giunga alla verità che non è certo, né quella di Pelosi, né quella della magistratura inquirente.
Secondo: non credo affatto che il solo Pelosi sia stato in grado di ridurre PPP nelle condizioni in cui fu ritrovato cadavere: anche secondo me Pelosi non era solo. C’era un branco con lui.
Eppure non credo all’omicidio politico.
Mi spiego. Non ho alcun dubbio che a uccidere Pasolini siano stati dei fascisti. Il disgustoso odio, probabilmente omofobico, che ha indotto gli assassini a fare scempio del suo povero corpo non può che essere fascista. Ma perché questo avvenisse non c’era alcun bisogno di alcun progetto, o trama. Ciò non implica alcun complotto. Bastava solo la realtà degradata di quelle periferie dove il neo-capitalismo italiano ammassava migliaia di poveri, il ghetto costruito per il nuovo lumpen-proletariat italiano, quello escluso perfino dal boom economico.
Bastavano l’ignoranza e la violenza di quegli esclusi, che PPP immaginava puri e angelici, e che invece erano assolutamente e irrimediabilmente corrotti, che lo sfruttavano per sottrargli denaro e insieme lo disprezzavano in quanto specchio, con la sua omosessualità, del loro vendersi a qualcosa che ideologicamente rifiutavano.
Credo cioè che si sia trattato di qualcosa di ben più orribile e usuale di un omicidio politico, architettato per mettere a tacere qualcuno che aveva in mano prove che avrebbero potuto mettere in imbarazzo, o addirittura in crisi, il sistema di potere coevo.
Credo che la drammaticità, la dimensione tragica della sua terribile e immeritata fine sia anche nel suo essere la dimostrazione finale di quanto le sue analisi sul sottoproletariato urbano fossero errate, superficiali ed, ahimè, pericolose.
Ma credo anche che sia stata la dimostrazione del suo coraggio di viverli fino in fondo, questi sbagli d’analisi. È la sua dimensione ‘eroica’: proprio quella che, invece di dissolvere le nebbie attorno alla sua fine, rischia e ha rischiato di infittirle.
Non merita di essere ridotto a santino un uomo e un poeta così. Non lo merita affatto.