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«Raccontare storie è la cosa che preferisco al mondo». Giulia Giaume intervista Lana Bastašić

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Lana Bastašić, nata a Zagabria nel 1986, è una autrice bosniaca. Dopo aver conseguito un master in studi culturali, ha pubblicato due raccolte di racconti, un libro di storie per bambini e uno di poesie. Il suo Afferra il coniglio, edito in Italia da Nutrimenti e tradotto da Elisa Copetti, è stato pubblicato per la prima volta a Belgrado nel 2018 e riedito nel 2019. La storia raccolta nel libro inizia quando Lejla chiama Sara al telefono. Non si parlano da dodici anni, ma si conoscono ancora. Le basta una sola parola magica: Armin. L’unico uomo che abbia mai apprezzato Sara, ma soprattutto l’unica speranza che la guerra non abbia distrutto ogni cosa e che la Bosnia meriti la salvezza. Con Afferra il coniglio Bastašić ha vinto il Premio Europeo per la Letteratura nel 2020. La sua nuova raccolta di racconti è invece appena uscita.

C’è spazio per una narrazione femminile su ciò che è accaduto in Bosnia e nei Balcani?

Ci sono molti libri sulla guerra – qui è un “genere cliché” – ma sono stati tutti scritti da uomini. Potrebbero anche essere grandi libri, però ci sono molti luoghi comuni: l’eroe indistruttibile contro l’antieroe, con le donne che esistono solo in funzione di madri, figlie, vittime di stupro e omicidio. Non ci sono storie dedicate a loro, e tutta la mia esperienza su cosa significhi essere una adolescente nel mezzo della guerra è assente. Ma le donne sono rimaste ad aspettare che la guerra finisse negli anni Novanta, vivendone le conseguenze: c’erano molta violenza domestica e fame, eppure in tanti facevano finta che andasse tutto bene.

Pensi che la pace in Bosnia alla fine della guerra abbia portato un po’ di pace spirituale o che le ferite siano ancora aperte?

In qualche modo l’accordo di pace ha fermato la guerra. In realtà, non ha fatto nulla per affrontare i problemi di fondo. I problemi erano stati nascosti sotto il tappeto nell’era socialista, erano come una pentola in costante ebollizione; in Bosnia abbiamo ancora un ambiente molto diviso a causa dei conflitti religiosi ed etnici. Tecnicamente c’è la pace, ma non è un paese pacificato: abbiamo molto lavoro da fare, con i politici che negano i crimini di guerra e tutti che giocano a fare le vittime. Per questo motivo sono stata (e lo sono tuttora) una traditrice dato ho deciso di rappresentare una ragazza musulmana come vittima della mia storia, portando alla luce quanto stava accadendo negli anni Novanta. Nei Balcani ogni cinquant’anni c’è una guerra, uno scontro di culture in uno spazio piccolissimo, con miti provenienti dalle culture slava, tedesca, musulmana. La nuova generazione potrebbe forse accettare il multiculturalismo, rendersi conto di quanto sia bello e veramente nostro.

Il tuo libro vuole essere un libro politico?

Volevo raccontare una storia che facesse vedere cosa significa essere un umano; non sapevo nemmeno cosa stesse accadendo in quel periodo. Non ho mai voluto essere politica, ma penso che la scrittura sia destinata a esserlo in qualche modo. Ha fatto riflettere le persone: i libri aiutano e danno nuovi punti di vista. E raccontare storie è la cosa che preferisco al mondo.

Il tuo libro si concentra molto sulle lingue e sulla loro connessione con l’identità, in che modo è rilevante per la storia?

Volevo che l’intera storia riguardasse il linguaggio: è una metafora della persona che parla. Sara, la narratrice, mette il linguaggio tra sé stessa e la vita, creando immagini estremamente ricche. Più usa il linguaggio, meno capisce del mondo, così se ne distacca. Credo non esista nulla al di fuori della lingua, ma il rapporto con il suo uso può essere complicato: ogni strato crea distanza.

Come è cambiato il tuo processo di scrittura durante la pandemia?

Sicuramente la pandemia ha impatto con il mio modo di scrivere. Marzo 2020 è stato un mese particolarmente difficile. Ho sperimentato il blocco dello scrittore per la prima volta in tutta la mia vita. Avevo molte idee, ma trovavo davvero difficile concentrarmi: la pandemia stava colpendo duramente i Balcani. Ho letto molte traduzioni contemporanee e mi sono concentrata sul fatto che scrivere narrativa significa anche creare qualcosa di diverso da ciò che ti circonda.

Come è stata la tua esperienza alla Fondazione Santa Maddalena?

Era tutto un po’ surreale, specialmente durante la pandemia, ma ne sono terribilmente grata. Ero in questo posto magnifico, in Toscana, con libri e cani ovunque. Mi sono presa il mio tempo per concentrarmi, dormire e scrivere in questa antica torre dove hanno scritto e dormito anche Zadie Smith e Margaret Atwood. Ho parlato un sacco in italiano con la mia ospite Beatrice. Ora lo sto perdendo perché non ho nessuno con cui esercitarmi.

Il tuo libro affronta spesso il problema di liberare se stessi come gli altri da uno sguardo “pieno di significato”, ovvero dal fatto che tutto deve sempre significare qualcosa. Questo vale per gli esseri umani in generale o per le donne in particolare?

È un tema importante: sperare che tutto abbia uno scopo, ma imparare che non tutto accade per un motivo è una delle lezioni più importanti per la mia narratrice. Deve capire che non si tratta di risolvere le cose con la sua vita, siano la sua vita o la guerra. Proprio come Alice non riesce a trovare alcuna logica nel Paese delle Meraviglie, Sara si ritrova nella stessa situazione tornando a casa. Non c’è un motivo per cui scoppia una guerra, specialmente in una regione così varia dal punto di vista etnico e religioso come è quella dei Balcani.

Come è nato il progetto 3 + 3 sorelle?

Non era pianificato: è successo e basta. Ero seduta con due delle mie amiche scrittrici, a Sarajevo, e volevamo organizzare qualcosa. Ci siamo rese conto che se fossimo stati tre uomini, ci sarebbe stato un festival dedicato ai nostri libri! Abbiamo deciso di creare qualcosa per parlare di scrittrici senza competere, dato che è una cosa da uomini competere nell’ambiente letterario. Così abbiamo deciso di parlare di altre autrici donne: tre per ogni volta che ci siamo incontrate. Abbiamo organizzato il primo evento e da quel momento è andato in cascata, 3 + 3 + 3 + 3 e così via. La cosa è esplosa. Così ci siamo dette: «Noi esistiamo, ci leggiamo e non ci vediamo come concorrenza».

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Lana Bastašić, born in Zagreb in 1986, is a Bosnian author. After she earned a master’s degree in cultural studies, she published two short stories collections, a book of short stories for children and one of poetry. “Catch the rabbit”, published in Italy by Nutrimenti and translated by Elisa Copetti, was first published in Belgrade in 2018 and reprinted in 2019. It all starts when Lejla calls Sara on her phone. They haven’t spoken for twelve years, but they still know each other. She only needs one magic word to call her back to Bosnia: Armin. The only one who has ever appreciated Sara, but above all the only hope that the war has not destroyed everything, and that Bosnia deserves salvation. “Catch the rabbit” won the European Literature Prize in 2020 and Bastašić’s new collection of short stories has just come out.

Is there space for a female narration of what happened in Bosnia and the Balkans?

There’s a lot of books about the war, it’s a cliché genre here, but they were all written by men. They might be great books but there’s lots of common places when telling the story: the hard-boiled hero versus the antihero, while women only exist in the realm of men as mothers, daughters, victims of rape and homicide. There are no stories about these people, my whole experience of what it means to be a teenager in the midst of the war is absent. But women stayed and waited in the nineties, they were expected to just live the consequences of the war: there was a lot of domestic violence and hunger, but many pretended everything was ok.

Do you think the actual Bosnian peace at the end of the war brought some spiritual peace or are the wounds still open?

In some way the peace agreement stopped the war, but it didn’t really do anything to tackle the underlying problems. These swept under the rug in the socialist era, like a constant boiling pot; we still have a very divided environment in Bosnia for religious and ethnic conflicts. There technically is peace but it’s no peaceful country: we have a lot of work, with politicians denying war crimes and everyone playing the victim role. For this reason, I was (and still am) seen as a traitor, as I decided to represent a Muslim girl as the victim of the story, bringing to light what was happening in the nineties. In the Balkans every 50 years there’s a war, like a clash of cultures in a very small space, with myths coming from the Slavic, German, Muslim cultures. The new generation could maybe accept that multiculturalism is a beautiful thing and that it is truly ours.

Is your book meant to be political?

I wanted to tell a story about what it means to be a human; I didn’t even know what was going on at the time. I never intended to be political, but I think writing is bound to be political somehow. It makes people think about things: books help and give new points of view. And telling stories is my favourite thing in the world.

Your book focuses a lot on languages and their connection with identity, how is it relevant for the story?

I wanted the whole story to be about language: it’s a metaphor for the person talking. Sara, the narrator, puts language between herself and life, creating rich images, and the more she uses it the less she understands of the world and gets detached. I believe nothing exists outside the language, but it can be tricky: each layer creates distance.

How did your writing process change during the pandemic?

It definitely had an impact; March 2020 was particularly hard. I experienced a writer’s block for the first time in my entire life. I still had lots of ideas coming, but I found it really hard to focus: the Balkans were going through a lot during the pandemic. I read contemporaries’ translations and concentrated on the fact that writing fiction also means to create something other than what surrounds you.

How was your experience at the Santa Maddalena Foundation?

It was all kind of surreal, especially during the pandemic, but I was terribly grateful. I was staying in this magnificent place in Tuscany, with books and dogs everywhere. I took my time to focus, sleeping and writing in this ancient tower where Zadie Smith also wrote, and Margaret Atwood also slept. I spoke a lot of Italians with Beatrice, the hostess, but I’m kind of losing it because I have no one to practise it with.

Your book often addresses the problem of freeing themselves and each other from a “meaningful” gaze, according to which everything must always mean something. Does this apply to humans in general or to women specifically?

This is an important theme: hoping that everything has a point but learning not everything happens for a reason is one of the most important lessons for my narrator. She has to understand that it was never about solving things, with her life and the war in general. Just like Alice can find no logic in Wonderland, Sara finds herself in the same situation going back home. There is no reason for a war to occur, especially in such a racially and religiously diverse region such as the Balkans.

How did you come up the 3+3 sisters project?

It was unplanned, it just happened: I was sitting with two of my female friends and writes in Sarajevo, we wanted to organise something. We realized that if we were three men, there would be a festival dedicated to our books! We decided to create something to talk about female writers, without competing, because it’s such a manly thing to compete in the literary environment. So, we decided to talk about other female authors, three each time we met. We organized the first event, and from that moment on it cascaded in 3+3+3+3, and so on. The thing exploded, we told to each other «We exist, we read each other, and we don’t see each other as competition».

Intervista a cura di Giulia Giaume

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