È notte, la piscina deserta. Filippo Cerri si sveste, indossa il costume delle gare, piega gli abiti e li ripone con cura sulla panca, allinea le scarpe, sale i gradini del trampolino. Resta un ultimo secondo lì, immobile, in balia della notte, prima di lanciarsi nel vuoto.
Un gesto inspiegabile, improvviso, una sciagura che cala sulla comunità di Castel Carpino come una maledizione.
Filippo Cerri, il figlio perfetto: carismatico, sportivo, di buona famiglia, l’ultima persona al mondo che avrebbe potuto compiere un gesto così folle, ha ceduto. In paese tutti sono sconvolti. Parte la caccia al colpevole, perché no, non può essere stato un suicidio, è una bestemmia solo pensarla, una cosa simile. E quindi via con la caccia alle streghe, è necessario trovare il colpevole, Filippo non era da solo quella notte in piscina. Hanno visto anche un’auto scura andarsene poco dopo. Qualcuno deve averlo spinto, qualcuno che potrebbe essere proprio lui, Gabriele, il suo migliore amico. Il best friend imperfetto, tracagnotto, timido e impacciato. Gabriele, quello che arriva sempre secondo alle gare e che si tiene tutto dentro perché le parole proprio non riesce a scriverle come fanno gli altri. Un ragazzo che appartiene a un mare diverso, distante anni luce dalle acque in cui nuotava Filippo, ed eccolo quindi, il miracolo della densità: permettere a due mari di incontrarsi senza mischiare le proprie acque (parole dell’autore).
Dev’essere stato per forza lui. Giuseppina è la prima a puntare il dito verso il ragazzo: l’ha fatto per colpa dell’invidia, perché era geloso, “tale madre, tale figlio”. È un odio che si tramanda negli anni, quello di Giuseppina verso la famiglia di Gabriele. Per lei, Angela è solo una donna debole, incapace di reagire alle tragedie, come quella che la colpì da giovane, quando mezzo paese vecchio venne inghiottito dalla terra portando con sé un pezzo della loro famiglia. Giuseppina punta il dito anche se Tonino dice di aver sentito qualcuno quella notte, alla piscina. Sagome nell’oscurità, una voce, una macchina nera che scappa nella notte. Tonino è il custode della piscina ma è anche il figlio di Giuseppina, un ragazzo disadattato, cresciuto senza il padre, senza una guida oltre a quella madre iperprotettiva e soffocante e che in passato ha visto in Angela la sua sposa perfetta, una relazione impossibile se non nella sua mente deviata.
Raffaele Notaro ci porta nella mente di ognuno di loro.
Siamo gli occhi di Gabriele, siamo i suoi timori, le sue incapacità. Ci sentiamo incompresi e minuscoli davanti all’impossibilità di scrivere un nome corretto, di reagire ad un insulto, gli siamo vicini nel dolore di quello sfogo durante il funerale dell’amico, vorremmo gridare con lui per poi farci di nuovo piccoli e silenziosi, in balia degli altri. Di Sonia e Lorenzo, gli amici di Filippo, avversari ostili ma capaci anche di evolvere e comprendere.
Siamo la diffidenza di Giuseppina, una madre disposta a qualsiasi cosa per proteggere il mondo ovattato del figlio “speciale”.
Siamo le notti insonni di Angela, siamo i suoi occhi guardinghi e pronti ad azzannare al primo tentativo di minaccia verso il figlio. Ma siamo anche Elide, o la psicologa Antonella.
Siamo voce e sentimenti di un popolo ancorato ad una terra ancestrale in cui lo status sociale è più importante della verità e il senso di vergogna è una serpe da schiacciare e nascondere sotto il tappeto. E forse è proprio di questo che ci vuole far capire l’autore lungo queste trecento pagine che scorrono sinuose e coese partendo da un incipit iniziale che ha tutto il sentore e le atmosfere di un thriller paesano ma che poi evolve e muta, come il punto di vista dei suoi protagonisti, per farsi romanzo di formazione che travalica gli anni. Perché non sono solo i giovani a cambiare e maturare nel corso dell’arco narrativo, al contrario, è tutto il paese stesso, vero protagonista e personaggio corale del romanzo, a scontrarsi, incolparsi e contrarsi alle imposizioni di una società schiava delle proprie classi.
La penna di Raffaele scorre sempre fluida e disinvolta, è una penna controllata, la penna di una persona che, non l’avessi letto nella sua biografia, mai avrei pensato potesse appartenere a un esordiente tanto è matura e abile nel tratteggiare personaggi credibili, riconoscibili ma soprattutto umani.
Ogni dialogo è uno scambio indispensabile, ogni descrizione è un’immagine lucida e bilanciata. Non c’è una metafora di troppo, non c’è inutile retorica ad annacquare il brodo prosaico, solo l’esigenza di mettere su carta una storia di persone vere. E così il rancore di Angela è anche il nostro rancore. La vergogna di Giuseppina è la nostra vergogna. Il senso di impotenza di Tonino, quell’impulso a voler distruggere tutto ciò che non gli può appartenere è qualcosa che abbiamo sfiorato e forse abbracciato anche noi.
Densità è la storia di una perdita, del senso di vuoto che trasfigura la carne e la mente di chi è rimasto ma è anche la rispettosa analisi di quello spazio intimo in cui l’amicizia può germogliare ed esistere senza la necessità di cambiare l’altro, sul potere della comprensione, sull’epifania del perdono.
Stefano Bonazzi