A raccontare per primo la figura dell’hobo americano non furono Mark Twain, Jack London, Charlie Chaplin o Jack Kerouac, che diedero un’epica narrativa alla dimensione del vagabondo “on the road”, ma lo scrittore Ralph Keeler (1840-1873) oggi al centro di una vera riscoperta nei campus e nelle librerie americane, ma ad oggi ancora del tutto sconosciuto ed inedito in Italia. Negli States Keeler, oltre ad essere entrato di diritto nella storia della letteratura, è stato riscoperto proprio come unico e vero antesignano della vita “sulla strada”. A differenza di Twain, London, Chaplin o Kerouac, Keeler non ha vissuto tra i velluti e il delirio del successo. Chaplin divenne così agiato da permettersi di fondare sull’epica del vagabondo tutta la propria fortuna (tanto da creare la United Artists); Jack London è stato la prima rockstar della letteratura con milioni di libri venduti, mente Jack Kerouac è da tutti riconosciuto come l’icona della beat generation.
Eppure Ralph Keeler non ha fatto “una vita fuori dalle regole” soltanto tra le pagine: la sua è stata, senza dubbio, la più spericolata delle vite.
E’ stato attore nei minstrel show, considerato la prima forma teatrale originale statunitense. E proprio in quegli spettacoli, tra circo e vaudeville, Keeler lavorò fra il 1830 e il 1840: prima di diventare un giocatore d’azzardo di carte e poi un hobo che girò attraverso gli Stati Uniti durante il decennio che va dal 1840 al 1850. William Dean Howells, il più importante critico letterario statunitense dell’800 e fondatore della scuola americana del realismo riteneva Vagabond Adventures un capolavoro ingiustamente dimenticato. Lo definì un “libro che appartiene alla grande letteratura, in tutta la sua fedeltà alla vita”. E in effetti le memorie di Ralph Keeler, ad oggi incredibilmente dimenticate, sono la prima rappresentazione americana di quella “gioventù bruciata” che prima di un modo di vivere divenne essenzialmente una moda. Perché, a parte Keeler e pochi altri sconosciuti, i maledetti americani hanno sempre vissuto i limiti del proprio esistenzialismo tra la gloria di un successo clamoroso e gli agi di una strada che, in realtà, era tutto tranne che on the road. Nelle pagine di Keeler troviamo quello che sarà “Il Monello” di Charlie Chaplin (che Keeler chiama “monellaccio”) e tutti quei ribelli che della strada faranno il proprio suono di vita beat. Non è una Bibbia, ma basta leggere le prime righe per comprendere come la vera avventura esistenziale non sia spingersi oltre i limiti o rifugiarsi negli eccessi delle droghe, ma avere la forza di comprendere e decifrare il perché certe vite siano davvero spericolate.
Gian Paolo Serino
È una strana fortuna vivere fuori dalle regole, o fare quella che si dice “una vita avventurosa”. C’è sempre la tentazione di raccontarla ma non sempre c’è la ragionevole sicurezza che gli ascoltatori possano dimostrare lo stesso interesse di chi la racconta.
Sarebbe senza dubbio determinare dal punto di vista delle geometrie narrative il punto esatto in cui i due tipi di interesse si incontrano : intendo l’interesse del narratore e quello delle persone che devono affrontare la sua storia.
Non posso dire di sperare di risolvere il problema. E soprattutto in questo caso, vorrei, con il dovuto rispetto, lasciare la soluzione all’intelletto sicuramente più acuto di altri.
Il mio libro intende presentare nel modo più chiaro possibile gli episodi della mia vita fino ai miei ventidue anni.
La scelta di scrivere un’autobiografia è nata non dal fatto che io supponga che qualcuno possa essere interessato alla mia persona, ma perché non vedo altro modo in cui raccontare queste avventure.
Nessuno più di me può capire quanto i fatti qui contenuti siano veri. Hume saggiamente ha scritto: “Un uomo non può parlare a lungo di se stesso senza un minimo di vanità”. Mi piacerebbe poter aggiungere che non ho mai conosciuto o saputo di qualcuno – a parte forse il lettore e lo scrittore di queste pagine – che riuscisse a parlare per cinque minuti di se stesso senza mentire. Questo se vogliamo ridurre la cosa in termini di statistiche. Un sorriso esagerato o una scrollata di spalle tra una frase e l’altra, o anche il tono della voce – anche se a volte inavvertitamente – faranno sempre in modo che
“qualcosa rimanga non detta,
o detta fin troppo”
anche se questo non è applicabile ad una storia scritta, seppure ci sia la possibilità di essere iperbolici o patetici, mi preme dire che sarò veritiero in modo più che ordinario in questa autobiografia.
E qualche merito ci deve essere sicuramente nel dire la verità, perché è dura quando sei tu il personaggio protagonista della storia, e non sei affatto quello che si dice “un eroe morale”.
Sarebbe un buon punto di partenza assumere il principio generale che un ragazzo farebbe meglio a non scappare mai via da casa. Non è necessario aggiungere tutte le le motivazioni che dovrebbero spingerci a non farlo. Potremmo ora metterci a fare della trita morale, sostenendo che un “monellaccio” non ha bisogno di andarsene in giro per il mondo a cercare guai, dal momento che non passerà molto che saranno questi a raggiungere lui, e che la casa è l’ultima fortezza costruita dagli uomini saggi per ripararci da frecce e dardi di un’oltraggiosa sfortuna. Perciò perché, ci si potrebbe chiedere – con una convinzione quasi travolgente per un adulto – il giovane fuggitivo si affretta così tanto inconsciamente a lasciare ciò che poi passerà tutta una vita a riconquistare?
Ora, avendo fatto il mio dovere nei confronti di qualsiasi ragazzo dall’animo inquieto che possa imbattersi in queste memorie ed essere influenzato dal mio esempio di vita vagabonda, mi affretto a dire che sono fuggito di casa alla matura età di undici anni e che non sono più tornato da allora.
È però doveroso per entrambi – cioè me e la mia casa – dire che non stavo fuggendo dal migliore dei focolari. Mamma e papà erano morti, non avevo fratelli e sorelle – niente che somigliasse minimamente a un affetto familiare, ma più che altro l’opposto. Insomma, penso che se mi ritrovassi nelle stesse circostanze, beh fuggirei ancora.
Ma spero che questa mia osservazione non induca il lettore distratto a pensare che io non provenga da una famiglia rispettabile. Se così fosse non sarei qui a scrivere queste righe. Rispettabile lo è diventata dal momento in cui ha preso piede questa autobiografia. A posteriori, la nostra “rispettabilità” è garantita dal fatto che ci sia uno scrittore di autobiografie in famiglia!
Ma una volta stabilita una verità, è facile trovare molte prove che la confermino. Quando Keplero, per esempio, in virtù di qualche strana idea o intuizione, intuì che i pianeti si muovono su orbite ellittiche, fu facile poi – o sarebbe stato, per rendere questo paragone scientifico maggiormente corretto – trovare una mezza dozzina di prove a supporto di questo nelle proprietà delle sezioni coniche. Perciò la rispettabilità della mia famiglia può ora fortunatamente essere provata in molti modi. Anche da un matematico, come per le leggi di Keplero. Anzi, queste prove potrebbero essere stabilite con una serie di numeri e cifre. Perché stiamo parlando di una famiglia ricca.
Questo è senza dubbio un vantaggio per chi scrive un’autobiografia, dal momento che di solito un’autobiografia inizia con un protagonista che nasce da “genitori poveri ma onesti”. Mentre io, con un po’ di orgoglio e candore, posso vantarmi, a oggi, di essere, in termini pecuniari, “il più povero” della mia famiglia.
(da “Vagabond Adventures”, 1870, traduzione di Nicola Manuppelli)