Marie Darrieussecq
“Rapporto di polizia”
“Il plagio è una nozione idiota, la cui frequentazione rende idioti”: chiunque viva di letteratura, non importa in quale veste, se di critico, scrittore o semplice lettore, presto o tardi si trova a fare i conti con questa verità crudamente espressa da Marie Darrieussecq nel saggio Rapporto di polizia. Può darsi che la verità del problema, la sua idiota natura cioè, non venga colta né presto né tardi, ma è pressoché impossibile non venire carezzati almeno una volta dal suo venticello calunnioso.
A me è capitato guardando un film. Dopo poche sequenze, quando la trama muoveva ancora i primi passi, mi è sorto il sospetto che il regista avesse costruito il tutto attingendo in maniera cospicua e spudorata a un mio romanzo. Non ebbi bisogno di attendere la fine perché il sospetto si tramutasse in certezza. Giunti i titoli di coda, avevo raccolto elementi a sufficienza per fugare ogni dubbio. L’idea di protestare le mie ragioni davanti a un giudice neppure mi sfiorò, e non tanto per la difficoltà di dimostrare un fatto pur evidente, quanto perché l’accusa di plagio è incompatibile con i miei principî.
Ho sempre considerato l’originalità un’invenzione nociva, oltre che ipocrita. I racconti nascono da altri racconti, le parole da altre parole. Scrivere storie non è che un continuo rimasticare. Lo scrittore che teme di rubare o di essere derubato non è dunque un vero scrittore. Malgrado questa mia convinzione, volli tuttavia confidare a qualcuno il furto legittimo di cui mi sentivo vittima. Fu a questo punto che si manifestò l’idiozia di cui parla Darrieussecq.
Per cominciare, scelsi un giudice non esattamente immune da conflitti d’interessi: mio fratello. Inoltre, quando il giudice mi sentenziò che non ravvisava somiglianze di sorta, restai di avviso immutato. Conclusi che mio fratello non aveva prestato la dovuta attenzione ai dettagli. Ciò non mi impedì però di conservare quel minimo di lucidità necessario per sentirmi uno sciocco. Più chiaramente: mi resi conto che non mi interessava affatto appurare la verità; ciò che davvero mi premeva era altro.
È convinzione di Marie Darrieussecq che dietro l’accusa di attingere oltre il lecito all’opera altrui si nasconda il desiderio folle di essere derubati delle proprie parole. Questo desiderio perverso sarebbe a sua volta espressione del bisogno di sapersi letti e amati, un bisogno simile a ciò che Gatian de Clérambault definì erotomania, “l’illusione delirante di essere amati”, concetto sviluppato anche da Lacan nei termini di una “paranoia di autopunizione”. Darrieussecq, nota per romanzi quali Troismi e Tom è morto, ha deciso di inoltrarsi in un simile ginepraio perché in più di una circostanza si è vista accusata di plagio.
Ma non solo. Mentre lavorava al suo unico libro autobiografico, Una buona madre, fu ossessionata dall’idea che altri, dopo di lei, osassero scrivere del tema in esso affrontato: la maternità procrastinata. Ulteriore stimolo, nonché motivo di conforto, fu la scoperta che persino Paul Celan, la cui voce di poeta è ormai all’unanimità considerata unica e inimitabile, dovette subire l’onta della plagiunnia. Claire Goll, vedova del poeta Yvan, lanciò infatti ben tre campagne di diffamazione da cui Celan uscì devastato. Che lo si accusasse di avere copiato equivaleva per lui a un tentativo di eliminazione fisica. Le parole erano la sola cosa che gli restava o perlomeno quella che riteneva più sua: essere bollato come ladro di parole era peggio di un’infamia, significava spossessarlo della sua identità, annientarlo.
Cercare di difendersi, confutare le prove portate a suo carico sarebbe stato inutile oltre che umiliante. Un esempio: Celan avrebbe copiato il frammento di verso “sangue di luna” perché in una composizione di Goll si legge: “una goccia del sangue lunare”. Il buon senso imporrebbe che simili coincidenze fossero pesate senza perdere di vista l’insieme, ma l’idiozia insita nella nozione di plagio prevede invece l’esatto contrario: una spasmodica attenzione al dettaglio, non importa quanto irrilevante nell’economia dell’opera. Quasi mai perciò l’accusa di plagio risponde a criteri di ragionevolezza; è piuttosto e perlopiù “un tentativo di far impazzire l’altro”.
È nella Russia dei primi anni della Rivoluzione che la plagiunnia inizia a essere usata sistematicamente quale efficacissimo strumento di annientamento. Caso emblematico quello di Majakovskij, che nel 1927 ebbe l’idea, non proprio brillante, di insultare un protetto di Stalin. Fu chiesto che venisse “rimesso al suo posto” e quale miglior modo della plagiunnia? Lo si accusò dunque di custodire i manoscritti del defunto Chlebnikov e di pubblicarli a poco a poco a suo nome. Tre anni dopo, nel corso di una serata letteraria, Majakowskij esclamò: “Mi si accusa di così tanti peccati, che ho o che non ho commesso, che a volte mi capita di dirmi che dovrei andare da qualche parte e restarci per un anno o due, se non altro per non ascoltare più le accuse”. Ci andò davvero da qualche parte, e non per un giorno o due. Il suo sfogo precedette infatti di pochi giorni il gesto estremo che l’accomuna a Celan, il suicidio.
Del resto, non c’è scampo. La tesi di fondo di Darrieussecq è che “due libri, quali che siano, letti in parallelo in un’ottica malevola o paranoica, potranno sempre passare per plagi l’uno dell’altro”, quando invece bisognerebbe dare per scontato il “plagio per anticipazione”, come lo chiama Perec alludendo al fatto che, in quanto creature appartenenti a una medesima specie e mosse pertanto da bisogni e stimoli analoghi, gli scrittori incorrono fatalmente nella sconvenienza (se mai è una sconvenienza) di proporre temi, racconti e accostamenti di parole già scritti.
Se il buon senso finisce per avere la peggio è perché cozza con un’idea molto in voga, sebbene vecchissima. All’origine di tutto ci sarebbe Platone. Fu lui, affermando che l’invenzione poetica parla al “posto di coloro che hanno fatto la guerra” ossia di chi ha sofferto in prima persona, a porre le basi del sentimento diffuso in base al quale leggere narrativa è una perdita di tempo. Ai racconti d’invenzione andrebbero preferiti la vera Storia e i documenti di vita vissuta, perché, ci dice Platone, “l’imitazione non conosce nulla di essenziale sul conto di ciò che imita: la sua imitazione è uno scherzo più che un’attività seria”.
Accusare di plagio e lamentare una qualche forma di inautenticità sono in fondo la stessa cosa. Ne consegue che, in teoria, qualunque sforzo di immaginazione, o anche di semplice empatia, reca la macchia dell’appropriazione indebita. Calarsi nei panni del prossimo, immedesimarsi, significa in fondo appropriarsi di cose d’altri, di esperienze che non ci appartengono e pertanto, nella più indulgente delle ipotesi, dovrebbe essere stigmatizzato come un atto di usurpazione. Che nella sostanza non sia così pare evidente a tutti, ringraziando il cielo. Ciò non basta però a riscattare la nozione di plagio, a renderla estranea alla pericolosa e censoria idiozia che Marie Darrieussecq ha inteso smascherare.
Tommaso Pincio