Massimo Bubola è un nome di culto della musica d’autore italiana: poeta, musicista e scrittore, ha realizzato venti album che segnano un percorso unico nella nostra letteratura musicale. Unendo la tradizione della musica popolare alla poesia contemporanea, ha creato una formula musicale ricca di suggestioni letterarie ed emotive.
La sua influenza ha inciso sulla scena italiana, a partire dalla collaborazione con Fabrizio De André, con cui ha scritto e composto album storici come Rimini e L’indiano, oltre al celebre brano Don Raffaè. Ha firmato canzoni indimenticabili come Il cielo d’Irlanda.
Nel 2000 ha tradotto l’opera completa di Patti Smith in Patti Smith Complete (Sperling & Kupfer). Nel 2006 ha pubblicato la raccolta di poesie Neve sugli aranci. Appassionato di storia, ha riscoperto il patrimonio della Prima Guerra Mondiale, dando vita agli album Quel lungo treno (2005) e Il Testamento del Capitano (2014), e al romanzo Ballata senza nome (Frassinelli), vincitore del Premio Croce.
Nel 2022 ha pubblicato Sognai talmente forte (Mondadori), un romanzo che intreccia i percorsi umani, onirici e letterari delle sue canzoni più celebri, offrendo ai lettori un’affascinante viaggio nel suo universo artistico.
Di seguito potete leggere l’intervista fatta per Satisfiction a Massimo Bubola che, Domenica 27 Ottobre, a Nizza Monferrato, ha partecipato al Festival letterario Libri in Nizza con Rapsodia delle Terre basse (Neri Pozza 2024, pp. 192, € 15,00).
Il libro è una lunga ballata, un romanzo folk-rock che prende vita nella pianura veneta degli anni Cinquanta. Qui, musicalità e poesia, immaginazione e trama si intrecciano per dare forma a un’opera vibrante, composta come un affresco medievale. È il frutto della creatività di un rapsodo cinquantenne, un “cavaliere elettrico” che, attraverso l’amplificatore della sua classicità e una gratitudine eretica verso la vita, dà voce a una narrazione unica e affascinante.
Carlo Tortarolo
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L’esergo del libro è accattivante e fa sorgere spontanea una domanda: come ha fatto suo padre ad insegnarle a scrivere e a nuotare lo stesso giorno?
La risposta è in parte realistica in parte metaforica. Realistica perché ricordo che da bambino ero al mare con la mia famiglia a Bellaria in Romagna e verso sera, quando tutti se n’erano già andati e la spiaggia era deserta, mia madre cominciò disegnare sulla sabbia con un bastoncino i ritratti di noi bambini, con me c’era un fratello più piccolo e due sorelle più grandi, e mio padre scriveva a caratteri cubitali i nostri nomi sotto i nostri ritratti. Mio padre mi raccontò che io ero attratto più che dalle grandi raffigurazioni di mia madre che incideva la sabbia col bastoncino, dalle sue scritte e trovava la cosa davvero sorprendente. Così sembra che volli imparare quella sera a scrivere il mio nome; avevo tre anni e mezzo e consideravo quello il mio ritratto più vero.
Per il nuoto fu qualcosa di simile, perché sembra che entrai in mare mentre i miei erano tutti presi da questo affresco sulla sabbia e non se ne accorsero subito, ma per fortuna che mia sorella Marilinda, la più grande, indicò loro la riva del mare dove si vedeva galleggiare solo il mio capellino di paglia. Mio padre venne a prendermi di corsa e senza spaventarmi mi sollevò e mi mise una mano sotto la pancia e mi fece andare avanti, mentre sembra gridassi entusiasta «Appa, appa!» cioè acqua.
La parte metaforica è che insegnare a scrivere e a nuotare contemporaneamente era come fare sì che una cosa fosse il sunto ed il compendio dell’altra. La parte fisica della salvezza e la parte astratta della bellezza.
Il tema della colpa collettiva e della necessità di espiazione è centrale nel suo romanzo. Cosa l’ha spinta a utilizzare l’elemento soprannaturale, come il latte azzurro e gli eventi prodigiosi, per esplorare le dinamiche interiori di una comunità rurale?
Ho avuto la fortuna di nascere e crescere in una grande famiglia patriarcale veneta. Eravamo sette famiglie riunite in una corte. Nella parte centrale del fabbricato c’era la grande casa dei miei nonni, con una grande cucina, dove tutti ci riunivamo per i pranzi della domenica, i compleanni e le feste comandate. C’era una visione della vita davvero comunitaria e una visione del mondo piena di saggezza e di equilibrio. La religione cattolica veniva tenuta in un certo conto, ma c’era anche una religione laica e più antica che la superava e riguardava il rispetto per ogni uomo sulla terra a qualsiasi credo politico o classe sociale appartenesse.
Quando ho approfondito il lavoro e la conoscenza della religione immanente e panteistica dei nativi americani, ho trovato molte somiglianze e affinità con la nostra cultura contadina e nella visione del mondo e dell’aldilà. In Piccolo grande uomo, uno dei primi film americani che non appartenevano alla solita epopea apologetica sui cowboys, in cui le vittime di un genocidio cioè i pellerossa, venivano criminalizzate dai bianchi americani che erano stati i loro carnefici. In quel film la figura più carismatica è quella del vecchio capo tribù Cotenna di Bisonte il quale a un certo punto della sua vecchiaia sente che deve morire e decide di andare su un monte sacro e di farsi accompagnare dal figlio, che è interpretato da Dustin Hoffman, bianco naturalizzato Cheyenne. Il capo tribù non sente la morte come una cosa drammatica, perché per lui l’importante è che la sua comunità vada avanti attraverso i più giovani, come un grande albero che perde le foglie eppoi attraverso i nuovi germogli rinasce e continua a crescere. La figura di mio nonno è stata una figura di pace simile a questa e di riferimento per tutti noi giovani cugini perché da vecchio, visto che era artritico e non poteva più andare nei campi a lavorare, teneva noi bambini (eravamo una decina) insegnandoci quello che sapeva e ricordava sulla terra, sulle stagioni, sui boschi, sugli animali, sul fiume, il tempo, la luna e le leggende che avevano attraversato la nostra terra. Ci raccontava anche molte vicende storiche, come quelle su Garibaldi, e ci portava in giro per i campi tutto il giorno, a insegnarci a pescare, a riconoscere le erbe e le piante, gli uccelli e la natura dei temporali. La comunità del paese era una sorta di unicum identitario e quindi le gioie, le morti, le nascite, i bei raccolti e le carestie appartenevano a tutti come i riti collettivi dei matrimoni, dei funerali, delle feste da ballo sulle aie e della solidarietà con le famiglie più povere. Era un cammino collettivo verso la libertà che era rappresentata prima di tutto dalla sopravvivenza della comunità. Quella capii poi nel tempo derivava da una narrazione dell’umanità nelle sue vicissitudini che assomigliava a quella del popolo d’Israele raccontata nella Bibbia, ma era permeata da una sorta di panteismo naturalistico che poco aveva a che fare con le religioni monoteistiche organizzate. Quindi gli eventi prodigiosi, le maledizioni collettive erano vissute come se la collettività fosse un sol uomo e così si muoveva, combatteva, cadeva e risorgeva. Mi ricordo che il più importante monumento del paese era quello è caduti della Grande Guerra in mezzo al giardino della piazza. Dove spesso ci si fermava a dare un saluto o a lanciare un fiore.
Qualche anno fa ho rivisto le canzoni di quel periodo storico, le ho riprese e riarrangiate e ne ho scritte qualcuna di nuova, in un lavoro lungo su tre album pubblicati una decina d’anni fa. Nel 1917 ho invece pubblicato un libro sulla Prima guerra mondiale Ballata senza nome, che ho dedicato a mio nonno che l’ha fatta.
I personaggi di “Rapsodia delle Terre Basse” sono profondamente umani, con pregi e difetti che li rendono realistici e complessi. Come ha lavorato sulla caratterizzazione dei personaggi per riflettere le sfaccettature dell’animo umano e le contraddizioni presenti nelle piccole comunità?
Sono persone che in parte ho conosciuto e in parte ho riambientato in quel contesto. In famiglia e con mio padre specialmente, si parlava molto delle persone che conoscevamo e ricordavamo con affetto e delle loro vicende e dei vari aneddoti che li riguardavano che rappresentava un modo bello e discorsivo di stare insieme anche nelle grandi riunioni di più famiglie. Mio padre, che era insegnante, mi parlava spesso dei personaggi significativi dei libri che amava come Papà Goriot, Alioša Karmazov, Fabrizio del Dongo, Georges Duroy di Bel Ami, poi li mischiava insieme con le nostre conoscenze, come se continuassero a vivere anche attraverso le nostre riflessioni e considerazioni.
Oggi si parla spesso di poesia in maniera astratta, e intellettualistica e scolastica. Ma una delle prime forme di poesia che ho conosciuto, cioè di sintesi plurileggibile, sono i soprannomi. Per esempio al mio paese c’era un nostro conoscente che si chiamava Tramontana, il soprannome sintetizzava in toto il suo carattere. I creatori di soprannomi, come mio padre o mio nonno erano dei veri poeti, perché in una sola parola descrivevano tantissimo e quello che dicevano era interpretabile e stimolante come la poesia vera.
La presenza di elementi fantastici e simbolici, come il falco messaggero e l’albero parlante, conferisce alla narrazione una dimensione quasi fiabesca. Qual è il ruolo del realismo magico nella sua opera e come pensa che questo stile possa influenzare la percezione dei lettori riguardo ai temi trattati?
La distanza di valori e competenze fra la società contadina e patriarcale dove sono nato e il mondo medievale è molto più breve della distanza fra quel mondo agreste degli anni Cinquanta e il mondo di oggi.
Dobbiamo pensare che nel medioevo c’era un uso di una lingua fortemente metaforica e ricca di aforismi, motti, detti e massime che erano fortemente presenti nel linguaggio quotidiano e religioso e di conseguenza nella pittura e nella scultura. Nelle chiese romaniche c’è un continuo ricorrere ai simboli e allegorie, perché il mondo non ecclesiale era quasi in toto analfabeta e quindi non in grado di leggere, ma capiva invece molto bene i simboli e i riferimenti, le raffigurazioni bibliche e quelle dei Santi, spesso riconosciuti per un simbolo che può essere lo strumento del loro martirio o un animale simbolico come il leone per San Marco o San Girolamo, l’orso per San Romedio o la scrofa per Sant’Antonio Abate. Ricordo sul cammino per Santiago de Compostela l’antico monastero di San Juan de la Pena in Aragona. In quella abazia c’era un grande chiostro che sui capitelli intorno c’erano delle sculture con rappresentazioni di uomini, di donne e di animali con riproduzioni e intrecci dinamici di una vivacità straordinarie e di una espressività quasi provocatoria. Questi capitelli erano folti di simbolismi e di riferimenti che tutti allora comprendevano chiaramente. Io ho usato nel mio libro come simboli dei vizi capitali gli uccelli: il pavone per la superbia, la colomba per la lussuria, la civetta per l’invidia, perché fossero le vittime del falco che veniva lanciato in aria a catturare il peccato commesso, cioè l’uccello-simbolo che lo rappresentava e capire se era quello il misfatto che avrebbe tolto la maledizione che aveva colpito il paese di San Sebastiano e la sua comunità.
La musica e la poesia permeano il suo romanzo, è evidente nella struttura narrativa e nello stile lirico della scrittura. In che modo la sua esperienza come cantautore ha influenzato la stesura di questo libro e come vede il rapporto tra parole, suoni e narrazione nella creazione di atmosfere ed emozioni?
Nella cultura umanistica, la conoscenza della musica, della letteratura e della pittura erano cose alquanto comuni per tutti gli artisti: i pittori, i poeti e i compositori. Nel Rinascimento quasi tutti i pittori e gli scultori suonavano e poetavano basti pensare a Michelangelo e allo stesso Raffaello, e poi penso al Cardinal Del Monte, mecenate e protettore di Caravaggio, che componeva musica, riformò il canto gregoriano e lo stesso Caravaggio suonava e rappresentava giovani musici con le partiture sui leggii. Credo che poter utilizzare tutte queste conoscenze ed esperienze, col vantaggio di poter dare coerenza al tutto, sia come armonizzare un lungo percorso ed è anche il completamento di un viaggio durato a lungo. Oggi purtroppo molti letterati e scrittori nel nostro paese, non hanno un buon rapporto con la musica e tanti non sanno suonare o cantare. Da questa limitatezza spesso deriva una sorta di rapporto conflittuale con chi fa musica e scrive poesie o romanzi, quasi questa poliedricità fosse una diminutio. Basti pensare alle polemiche e alle reazioni indignate di molti scrittori e letterati del nostro paese per il conferimento del premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan. Questo naturalmente non avvenne in altri paesi soprattutto quelli che hanno letterature più giovani della nostra come il Brasile, l’Argentina, la Russia, gli Stati Uniti, che giustamente considerano poeti chi scrive canzoni di alta qualità letteraria.
Attraverso la critica alle istituzioni tradizionali, come il Consiglio dei Savi, sembra emergere un messaggio sulla necessità di rinnovamento e autocritica all’interno delle comunità. Quali parallelismi vede tra la società descritta nel romanzo e l’Italia contemporanea, e quale speranza o avvertimento desidera trasmettere ai suoi lettori?
La democrazia, nella forma che ancora oggi ci riguarda come anche una parte rilevante del mondo, è nata ad Atene nel V secolo a.C. ed è nata dalla proprio dalla Dialettica, cioè da quel diritto-dovere di ogni cittadino di dibattere le varie questioni che fossero di tipo amministrativo, filosofico, giudiziario, artistico o militare. Credo che la mancanza di dialettica, cioè quando si ha una voce sola o poche che comandano e non c’è più una larga interlocuzione od opposizione da ascoltare e con cui civilmente confrontarsi, si vada incontro a periodi bui che generano grandi scelleratezze, profonde ferite e diffuse ingiustizie, se non vere e proprie guerre.
Nel mio libro, Lorenzo il presidente del Consiglio dei Savi, si scusa davanti alla sua comunità, anche per gli errori commessi dagli altri che lo hanno preceduto. Sostanzialmente il Consiglio è l’immagine di una piccola oligarchia al potere che decide per tutti senza confrontarsi sensatamente con nessuno. Quindi è l’esempio di quanto sia pericoloso un potere anti-dialettico e autoreferenziale in ogni periodo della Storia, in ogni piccola e grande comunità. Lo vediamo ancor oggi negli stati dittatoriali, che sono quelli che a tutt’oggi scatenano guerre vane, perché il sangue, il lutto e la rovina sono nel loro DNA che non ama la critica e la dialettica, perché di fronte a queste scomparirebbe.
Nel corso della sua lunga carriera, ha saputo coniugare le tradizioni musicali italiane con sonorità moderne, spaziando tra folk, rock e cantautorato. Come è riuscito a mantenere questo equilibrio tra tradizione e innovazione, e quali sono stati gli elementi chiave che hanno influenzato la sua evoluzione artistica nel tempo?
Cantautorato è una parola che non amo particolarmente, perché è generica e riduttiva. I cantautori non sono una categoria uniforme. Anche i Rolling Stones facevano musica d’autore e i Beatles, i REM o gli U2. Ogni band od ogni singolo che creava una poetica e una musicalità, facevano musica d’autore. Io ho sempre avuto riferimenti musicali diversi dalla maggior parte dei miei colleghi, perché ho visitato più generi musicali come il Folk, il Country, il Blues, Rock, il Soul a seconda dell’argomento che volevo trattare. Nell’800 i compositori usavano le tonalità e le tipologie dei tempi virtuali come vivace, allegretto, andante, lento.
Io se avevo da raccontare una storia che si muoveva fra legalità e illegalità, usavo il blues, se avevo una canzone lirico-amorosa usavo accordi minori e tempi dispari. Se avevo una storia open air, come quando scrissi Il cielo d’Irlanda, usavo il folk e le tonalità di Reo Sol maggiore. Se avevo storie epiche usavo magari accordature aperte e ritmiche percussive profonde. Oggi abbiamo perso la cultura delle tonalità e quindi dobbiamo ricorrere ai generi per dare una giusta cornice alle nostre storie. Ma la gran parte dei miei colleghi più anziani non avevo una grande padronanza della musica e della parte esecutiva che tendevano a delegare a qualcun altro. La mia generazione è stata la prima a gestire di più anche la parte musicale ed anche le registrazioni in studio e gli arrangiamenti. Io, infatti ho prodotto una trentina di album di altri colleghi, di cantanti e di gruppi, laddove il termine produttore nella musica equivale a quello di regista nel cinema, cioè, devi scegliere le canzoni, arrangiarle, seguire e correggere le interpretazioni e occuparti anche del montaggio, cioè missaggio e masterizzazione e della copertina.
La collaborazione con Fabrizio De André ha segnato una tappa fondamentale nella sua carriera, contribuendo alla creazione di alcuni brani iconici della musica italiana. Come ha influenzato questa esperienza il suo modo di scrivere e comporre? Può condividere qualche aneddoto o insegnamento particolare che le ha lasciato De André?
Quando Fabrizio De André mi chiamò a collaborare con lui, avevo solo 21 anni e venivo da un percorso letterario e musicale molto diverso. Ero un chitarrista elettrico in una rock band e suonavo brani degli Stones, dei Doors, dei Deep Purple, Led Zeppelin ed ovviamente anche del grande Bob Dylan, degli Eagles, dei Jefferson Airplane e molte ballate di quella che chiamavano allora la Renaissance inglese del folk antico e della musica popolare rivisitata, con band prestigiose come i Fairport Convention, gli Steeleye Span e gli Amazing Blondel. Scena che Fabrizio poco conosceva e non amava particolarmente, a parte Dylan.
Per la parte letteraria mio padre mi leggeva i poeti fin da piccolo come i suoi amati Rilke e Mallarmé, Valery e Apollinaire e quindi mi diede un imprinting decisamente surrealista, infatti poi all’università studiai Bunuel e Cocteau in un corso di cinema sul Surrealismo.
Da adolescente leggevo molta poesia spagnola-andalusa come Garcìa Lorca a Rafael Alberti e la poesia latinoamericana di Pablo Neruda, della meravigliosa poetessa anch’essa cilena Gabriela Mistral e di scrittori come il messicano Juan Rulfo e il guatemalteco Miguel Angel Asturias inventori del realismo magico che influenzò tanto Gabriel Garcia Márquez e tanta letteratura al mondo, quorum ego. Ho amato ed amo altri grandi cantori epici come Walt Withman e i brasiliani Jorge Amado e Guimaraes Rosa e l’irlandese esoterico William Butler Yeats. Durante l’adolescenza mi hanno fatto compagnia i poeti americani Edward Cummings e Robert Creeley, il neo-dolcestilnovista Lawrence Ferlinghetti e la sfortunata poetessa Sylvia Plath oltre a suo marito, il finissimo poeta laureato Ted Hughes inglese e al leggendario poeta gallese Dylan Thomas.
Fabrizio De André mi ha fatto conoscere in maniera più approfondita soprattutto i francesi e George Brassens in particolare, che era stato il suo riferimento ed ho avuto la fortuna che mi traducesse in un orecchio le sue canzoni mentre sull’altro avevo il disco di Brassens che cantava.
Con De André non avevo molti punti di contatto, a parte la cultura classica e l’amore per il mondo contadino e pastorale. Eravamo di due generazioni profondamente diverse anche musicalmente, ma questo non ci impedì di confrontarci e di lavorare insieme e di scrivere una ventina di canzoni che continuano a veleggiare nel tempo tra cui mi piace ricordare Fiume Sand Creek, Hotel Supramonte, Andrea, Volta la Carta, Se ti tagliassero a pezzetti, Quello che non ho, Don Raffaè che canto ancora nei miei concerti.
Le sue canzoni spesso trattano temi profondi e universali, come l’amore, la guerra e le radici culturali. Come nasce l’ispirazione per questi brani, e quale processo creativo segue nel trasformare emozioni e storie in musica e poesia? In che modo ritiene che la sua musica possa contribuire al dibattito sociale e culturale contemporaneo?
Ho sempre cercato di unire la bellezza della musica con quella della poesia. Perché la bellezza racchiude profondi significati e li rende comprensibili e commestibili. Ed ho cercato anche di scrivere canzoni cantabili, memorizzabili e riproducibili, che durassero nel tempo, come le cose che ami: la tua chitarra, una vecchia giacca di cuoio, un paio di scarponi da montagna, la finestra sul bosco. Ho sempre pensato che bisognasse scrivere libri leggibili, film visibili e canzoni cantabili. Cose che hai voglia di riprodurre e rileggere. Le canzoni sono state e sono ancora per molti l’unico accesso che hanno nella vita alla poesia. Persone che non leggevano romanzi e nemmeno poesie, che non avevano idea di cosa fosse un poema, attraverso le canzoni sono state in grado di trarre riflessioni utili e indicative per la loro vita, su argomenti che riguardavano questioni sentimentali o di amicizia o la condivisione sociale e lo stato della giustizia nel mondo. Questa visione credo che nasca, dalla mia educazione familiare che ha sempre cercato di darmi un senso di responsabilità verso gli altri e di sentirmi parte di una società di persone a cui dare un reale contributo e il meglio di me stesso. É una sensibilità sociale che mi sembra si stia annacquando nel tempo e soprattutto per una ormai prolungata latitanza di tanti padri e tanti maestri che ci hanno cresciuto per gli altri.