In libreria il nuovo romanzo di uno dei più grandi rappresentati del noir italiano, ovvero Raul Montanari con il suo Il vizio della solitudine per i tipi di Baldini + Castoldi
A trent’anni esatti dal suo esordio Montanari confeziona una storia ispirata e coadiuvata dalla sua tipica scrittura limpidissima che lascia trasparire un mondo interiore crepuscolare e disincantato. Fulcro del romanzo è proprio il rapporto che si instaura tra il protagonista l’ex ispettore Ennio Guarneri, sopraffatto da aberranti esperienze socio-lavorative, e la solitudine, l’assenza e il vuoto che si crea negli interstizi dei rapporti personali. Unica ancora a una realtà sensibile e umana è una sua vecchia maestra delle elementari con cui si ritroverà a rivivere un secondo percorso di educazione scolastica. Ma la vecchia vita da poliziotto riaffiora in maniera subdola e porta Ennio ad assistere a un brutale tentativo di omicidio che lo strapperà dal suo bisogno di solitudine per catapultarlo in nuove indagini lorde di sangue e violenza. Faccia a faccia con i membri della Han, sadica organizzazione criminale che vuole portare la giustizia ad ogni costo, l’ex ispettore Guarneri dovrà non solo fronteggiare una banda di assassini ma rivaleggiare con la parte più oscura del suo IO. Il noir di Montanari viene tiepidamente rischiarato dalla presenza di una figura femminile che con la sua dolcezza interromperà il sortilegio della malinconia che soffoca Guarneri. I chiaroscuri di Montanari creano una storia caravaggesca dove luci e ombre avvolgono l’intera narrazione, la violenza umana evade dalla pagine e l’inchiostro de Il vizio della solitudine è linfa mortale per destrutturare le percezioni e le sicurezze del lettore.
Cristiano Saccoccia
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All’alba i cormorani si erano levati tutti insieme dal grande pioppo che era diventato il loro posatoio ed erano partiti in caccia. I pescatori dicevano che erano stati loro, i diavoli neri scesi dal Nord, a fare strage di ogni forma di vita che dimorasse nell’acqua, ma della vita gli uccelli conoscevano solo le leggi elementari – mangiare, riposare, proteggersi, riprodursi. Non erano assassini, solo perfette macchine per cacciare nelle profondità del fiume, tuffandosi con un movimento elegante e zigzagando invisibili, là sotto, fino a trovare una preda. Poi la portavano in superficie ancora viva e guizzante, la rigiravano nel becco e la ingoiavano.
Lui no. Non era partito con gli altri.
La sera prima, sott’acqua si era impigliato in una rete o in ciò che ne rimaneva e per liberarsi aveva compiuto uno sforzo così spasmodico, perché stava per annegare, che un dolore insolito gli aveva attanagliato un’ala e gli era costata molta fatica tornare alla sua casa sull’albero. Doveva riposarsi e aspettare che il dolore passasse, perché in quel momento la semplice idea di volare lo faceva star male. Nessuno gli avrebbe portato da mangiare, anche se alcuni dei suoi compagni erano nati dalla sua stessa madre. Si sentiva solo.
Vide il primo uomo camminare sul sentiero, lentamente, guardandosi intorno distratto. Il cormorano era abituato a diffidare degli uomini e alzarsi in volo con gli altri, quando li vedeva avvicinarsi, ma quella mattina si accontentò di abbassare la testa fino a nasconderla fra le ali, senza smettere di tener d’occhio la figura che avanzava.
L’uomo si fermò proprio sotto il pioppo. Uscì dal sentiero, sedette su un masso coperto di muschio che sporgeva sull’acqua e rimase a guardare il fiume, immobile. Era un italiano di media statura, muscoloso, con la testa rasata quasi a zero, e nella tasca del giubbotto gli pesava un oggetto. Quel paesaggio diverso da tutto – dal mare, dai grandi laghi, anche dai torrenti schiumosi che rumoreggiano lungo le valli di montagna – aveva una solennità silenziosa che lo incantava.
Erano passati alcuni minuti, forse un quarto d’ora, quando sopraggiunsero altri due uomini. Camminavano anche loro sul sentiero, insieme. Uno dei due era un egiziano, l’altro un nigeriano, un quarantenne basso e robusto. L’egiziano tremava, terrorizzato. Quando arrivarono sotto l’albero il nigeriano disse all’egiziano di fermarsi. Nella sua mano era comparsa una pistola. Poi gli ordinò di mettersi in ginocchio. L’egiziano singhiozzava, ora. Cercò di pregarlo, supplicarlo, ma l’altro gli puntò in faccia la pistola e il suo prigioniero finì per obbedirgli.
Tutto questo avveniva a poco più di dieci metri dall’italiano che si era seduto sul masso a guardare il fiume, perché un grosso cespuglio lo separava dal sentiero e lo rendeva invisibile. Fin da quando aveva sentito i passi e le voci dei due, l’italiano aveva girato la testa, prima seccato e poi incuriosito. Ora si alzò senza fare rumore e spiò attraverso il cespuglio.
L’egiziano era in ginocchio, a mani giunte, e scongiurava il suo carceriere, che sul volto duro aveva tutti i segni di una volontà inesorabile.
Non c’era tempo da perdere: se qualcosa doveva essere fatto, andava fatto subito. L’italiano non sapeva nulla di quei due ma in lui scattò un istinto che ormai gli era naturale, si era accumulato in tanti anni. Uscì dal cespuglio impugnando a sua volta un revolver molto piccolo, che fino a quel momento aveva tenuto nella tasca del giubbotto, e lo puntò sul nigeriano.
“Chi sei, tu? Cosa vuoi?” chiese l’altro voltando appena la testa, stupito e subito furioso.
“Metti via la pistola,” disse l’italiano, in tono calmo.
“Tu non sai niente, non sai chi è lui,” ribatté il nigeriano. “Va’ via e dimentica quello che hai visto.”
“Non lo so e non mi interessa. Via quella pistola,” ripeté l’italiano.
Accadde in un attimo. Il nigeriano fece un gesto improvviso e il cormorano, lassù sul suo nido, si spaventò terribilmente perché sentì due esplosioni fortissime. Defecò e batté le ali per fuggire ma il dolore all’ala lo paralizzò. Non poteva andarsene. Guardò di nuovo sotto. La scena era cambiata.
L’egiziano si era alzato e stava scappando lungo il sentiero, dalla parte opposta a quella da cui tutti e tre erano arrivati. A essere in ginocchio era il nigeriano, ora, ma ci rimase poco. Poi si lasciò andare su un fianco e restò immobile. Il sangue si allargava sul suo petto e il cormorano ne sentì l’odore fin lassù.
Mentre l’egiziano continuava la sua fuga, inciampava, si rialzava, correva ansimando e voltandosi indietro a ogni passo, l’italiano si chinò sull’uomo a cui era stato costretto a sparare. Posò una mano sul collo, poi si tirò su. Era morto.