Proponiamo un testo inedito di Raul Montanari tratto da Ti racconto una canzone, libro di Massimiliano Nuzzolo realizzato in collaborazione con Eleonora Serino, in uscita da Arcana Edizione.
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Fin da quando avevo quindici anni, io sono sempre stato lasciato. Prima dalle ragazzine, poi dalle ragazze più cresciute, ventenni, trentenni, poi dalle donne, come immagino si debbano chiamare le femmine dai quaranta in su.
Farmi lasciare era diventata una vera specialità, per me.
A volte erano addii strazianti, lacerazioni crudeli e inattese di sentimenti che credevo solidi. Più spesso si trattava invece di congedi previsti, alcuni perfino desiderati. Mi ripugnava, forse mi spaventava, essere io a dire basta. Così finivo per aspettare che fosse la ragazza a farlo – la ragazza di turno, voglio dire.
Magari la aiutavo a decidersi: cominciavo a non rispondere più al telefono, ad arrivare in ritardo agli appuntamenti o addirittura a non presentarmi affatto. A letto diventavo distratto, malaccorto, egoista… questo mi costava fatica perché per me avere rapporti intimi con una ragazza ha sempre significato farla stare bene. Farla felice, se possibile, anche a costo di trascurare i miei desideri. Tanto che più di una, alla fine, mi chiedeva: “E tu?”. A quel punto spiegavo cosa potevano fare per metterci in pari e loro erano contente di farlo, se non si sentivano troppo stanche. Perciò non mi piaceva imporre a me stesso di essere sgraziato e goffo, come quei maschi detestabili di cui sentivo parlare. Ma avevo uno scopo che a me sembrava gentile: stancarle di me. Deluderle al punto che fossero loro, quando la misura era colma, ad allontanarsi.
Tutte queste separazioni, anche quelle che avevo agevolato di proposito, mi sembravano piccole morti. O, più esattamente, metafore della morte: qualcosa prima esiste, poi non c’è più. Qualcosa è durato nel tempo e ora è finito per sempre, non tornerà.
Quando ero innamorato, la morte del venire lasciato era davvero un lavoro di coltello, uno squarcio nel tessuto della mia vita. Mi ritrovavo sballottato nel silenzio e nella solitudine delle mie giornate, scoprivo il pieno che c’era stato prima grazie al vuoto che aveva preso il suo posto. Era come se la mia casa fosse esplosa, le pareti disintegrate, il tetto polverizzato, e ora vagavo come un astronauta abbandonato nello spazio buio, allargando le braccia per trovare di nuovo qualcosa a cui appoggiarmi.
Ricordo benissimo questa sensazione quando fui mollato da Elisa, la mia prima ragazza milanese. In precedenza, si era trattato di amori estivi, alcuni frivoli, inutili, altri struggenti proprio perché avevano il sapore del provvisorio, come quei prodotti che hanno impressa la data di scadenza. Ogni bacio era sottratto a questo nulla che se ne stava in agguato, con la sua tremenda pazienza, sapendo di dover solo aspettare. (Come con lei, ora. Così.) Non ho mai pensato seriamente di continuare a vedere quelle che incontravo in vacanza. Al massimo qualche lettera, qualche telefonata.
Questa però era una storia diversa, nata nel primo anno di università fra le brume di quel novembre che a Milano è un mese terribile, il peggiore dell’anno. A dicembre almeno vedi la luce in fondo al tunnel – l’albero di Natale, le luminarie che spuntano qua e là nelle strade, sui balconi, e che, pur orripilanti, alludono a un’altra luce: quella vera che ha già iniziato a riconquistare spazio giorno dopo giorno, minuto su minuto. Invece novembre è una nave che salpa verso l’eterno grigiore. Per questo era stato ancora più sorprendente che da questo purgatorio di giornate asfittiche fosse uscita lei, intelligente, bella, spiritosa. E ricca.
Troppo per me che sono nato povero. Anzi, peggio che povero – in una famiglia microborghese, papà impiegato e mamma casalinga. I piedi appoggiati sulla crosta proletaria dei loro genitori, le mani aggrappate a un tram illusorio di benessere e piccole, risibili conquiste: l’utilitaria sempre più comoda, l’appartamentino con una stanza in più, qualche strappo alla logica feroce del tre per due nelle spedizioni al supermercato con la lista in mano.
Lo pensai subito che questa differenza fra me e lei sarebbe stata letale, e avevo ragione. Sospetto, in realtà, che questa consapevolezza abbia accelerato il disastro.
Io parlavo spesso del problema, che a lei – almeno all’inizio – sembrava inesistente. Lasciavo cadere commenti sui vestiti, sugli amici, sulle rispettive famiglie, per non parlare della casa visto che lei abitava nientemeno che a pochi passi dal Duomo.
Elisa prima rideva, poi cercò di ragionare con me per dimostrarmi che mi sbagliavo. Gli argomenti erano sempre quelli: a me piaci tu, che m’importa di dove vivi o di cosa faceva tuo nonno? E poi guarda che i miei di soldi ne hanno pochi, scommetto che il vostro conto in banca è più florido del nostro, noi abbiamo giusto le case, che costano e basta. Una singolare conseguenza di questa sua tesi era l’incredibile tirchieria che ostentava, un’avarizia di proporzioni enormi, quasi grottesche. Le scene che fece una volta che le toccò timbrare un nuovo biglietto dell’autobus, dato che quello di prima era scaduto per pochi minuti! Non ho mai capito se Elisa voleva convincermi di essere davvero al limite dell’indigenza o se era avara e basta, come altre donne abbienti che ho incontrato in seguito. (Lei invece no. Lei era una perla uscita dal letame, come me.)
Insomma, ciò che era cominciato a novembre a marzo era già finito. Il modo in cui Elisa troncò tutto fu così brutale che credo proprio non ne potesse più di me e delle mie lagne. Una molla a me invisibile si era lentamente caricata ed era scattata. Ricordo l’umiliazione di un regalo restituito… con tutti i soldi che mi era costato! Poi un’ultima telefonata, dopodiché non si fece più vedere nemmeno all’università.
Lo smarrimento mi fece vacillare. Se fossi stato colpito da una folgore non avrei potuto provare una sensazione ugualmente forte di sgomento e di ingiustizia. Camminavo lungo giornate improvvisamente vaste, vertiginose, e non bastava la preoccupazione per gli esami alle porte a riempirle. Ero sbalordito ed ero ferito, offeso, ma di un’offesa che non riusciva a diventare rabbia perché dava troppo nel pianto.
I miei genitori non sapevano più cosa fare. Finii per dire a mia mamma quello che era successo perché non le potevo nascondere niente, era come se mi leggesse dentro, sempre, da sempre, per sempre. La sentii per la prima volta imprecare con parole volgari, mandando in frantumi quella rispettabilità da vestito buono della domenica che di solito moderava il suo linguaggio. Mentre la guardavo stringere i pugni capii che aveva odiato l’aristocratica Elisa fin da quando l’avevo portata in casa, il nostro appartamentuccio che per l’occasione era stato lavato e lustrato come se si aspettasse una visita papale. Non mi sentii meglio: mi sentii ancora più solo. (Ma non come ora che lei non c’è più. Oh, no.)
E poi accadde questo.
Una sera stavo salendo le scale del condominio dove abitavamo al terzo piano quando, da dietro una porta, sentii accendersi di colpo una radio, o forse era uno stereo?, e le note di una vecchia canzone che non mi sembrava di conoscere allagarono il pianerottolo.
Prima accelerai il passo, infastidito, poi invece rallentai e mi fermai a metà della rampa, colpito dalle parole.
No, non verrai
L’orologio nella strada ormai
Corre troppo per noi.
Così diceva la prima strofa. La situazione di cui parlava somigliava solo in parte alla mia perché Elisa non aveva mancato a un appuntamento, il congedo era avvenuto in un altro modo.
Ma si trattava sempre di un uomo lasciato da una donna – visto che il cantante era maschio – e nella musica sentivo risuonare una solitudine che non poteva non essere la mia. La canzone continuava così:
So dove sei
Tu non stai correndo qui da me
Sei rimasta con lui.
Qui le differenze aumentavano perché Elisa non mi aveva mollato per un altro, si era stancata di me e basta. Però, pensandoci, che ne sapevo io di questo?
Mi appoggiai al corrimano e abbassai gli occhi, riflettendo.
Cosa mi faceva immaginare che Elisa ora fosse sola come me? L’avevo dato per scontato, chissà perché. E se invece fosse stata davvero con un altro? Se mi avesse lasciato perché c’era un ragazzo che le piaceva di più? Magari si era già messa con lui e in questo momento erano abbracciati da qualche parte, in un cinema, a casa di lui, nella bella auto che lui di sicuro aveva mentre io non riuscivo nemmeno a farmi prestare quella di mio padre – mai, neanche la sera, quando lui se ne stava accasciato davanti alla tivù – e vagavo fra tram e metropolitane, bus e filovie.
Le luci bianche nella notte
Sembrano accese per me
È tutta mia la città
Le luci erano quelle delle scale? Ma no: i palazzi, i grattacieli, i semafori, pensai, e subito il ritornello distese la sua melodia e mi avvolse come una carezza.
Tutta mia la città
Un deserto che conosco
Tutta mia la città
Questa notte un uomo piangerà.
Oh, sì. Tutta mia, la città.
Forse, a rivedere ora quella scena, ero semplicemente maturo per liberarmi del lutto, tanto mi parve esplosiva quella rivelazione in fondo banale. Tutto mi veniva restituito, ora che Elisa non c’era più.
Gli orizzonti infiniti, le infinite storie, gli incontri, le avventure che mi aspettavano nella giungla degli anni. La solitudine non era una maledizione, era la libertà! Non era una malattia, era la salute. All’inferno Elisa e quella sua famiglia di cariatidi, al diavolo anche il Duomo, la Madonnina, i piccioni! Eccola la rabbia, finalmente, mentre il cantante ripeteva che quella notte un uomo avrebbe pianto… be’, piangesse pure lui. Io avevo già pianto abbastanza, non avevo più niente di cui piangere.
Ripresi a salire le scale, e ai miei occhi di adesso è come se quelle scale si allungassero sugli anni venuti dopo, i nuovi abbracci, i nuovi addii, e ogni volta alla fine il ricordo di quella canzone come una sigla finale ma anche come una promessa.
Quelle parole volevano evocare dolore, ma per me sono sempre state l’inno al nuovo inizio, al nuovo amore in attesa. Ancora nebuloso, invisibile. Nascosto nella città tutta mia, solo mia.
(E allora perché adesso che lei non c’è più non mi succede? Perché la città non è più mia?)