Il 7 maggio 1948, Raymond Chandler scriveva a Frederick Lewis Allen, editor di Harper’s Magazine, trovando l’occasione di esporre una sua teoria riguardo alla scrittura e all’azione nella scrittura.
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Molto tempo fa, quando scrivevo romanzi gialli, ho inserito in un racconto una frase del tipo: “Scese dall’auto e attraversò il marciapiede inondato di sole finché l’ombra della tenda che copriva l’ingresso non gli cadde sul viso come il tocco dell’acqua fresca”. L’hanno tolta quando hanno pubblicato la storia. I loro lettori non apprezzavano questo genere di cose: bloccavano l’azione. E io mi proposi di dimostrare che si sbagliavano.
La mia teoria era che pensavano che a loro non importasse altro che l’azione; che in realtà, anche se non lo sapevano, a loro importava ben poco dell’azione. Le cose a cui tenevano davvero, e a cui tenevo io, erano la creazione di emozioni attraverso i dialoghi e le descrizioni; le cose che ricordavano, che li ossessionavano, non erano per esempio che un uomo fosse stato ucciso, ma che nel momento della sua morte stesse cercando di prendere una graffetta dalla superficie lucida di una scrivania, e che questa continuasse a sfuggirgli di mano, tanto che aveva un’espressione di tensione sul volto e la bocca semiaperta in una specie di sorriso tormentato, e l’ultima cosa al mondo a cui pensava era la morte. Non sentì nemmeno la morte bussare alla porta. Quella maledetta graffetta continuava a sfuggirgli dalle dita e lui non riusciva a spingerla verso il bordo della scrivania e ad afferrarla mentre cadeva.
Raymond Chandler