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«Religioso e profondo», rivincita per Greene.

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Il potere della penna o la gloria della fede? L’uno e l’altra ebbe Graham Greene, secondo chi da sempre ne rilegge i capolavori: “Il fattore umano”, “La roccia di Brighton” o “Il nostro agente all’Avana”. Peccato che il romanzo più grande, “Il potere e la gloria”, benché racconti a suo modo la storia di un prete eroico, sia stato messo all’Indice dal Sant’Uffizio. Ma tutto scorre: oggi «Civiltà Cattolica» rivaluta lo scrittore inglese. Scrive infatti padre Ferdinando Castelli, critico letterario della Compagnia di Gesù, che le sue narrazioni sono «profonde e inquietanti», pur se «discutibili», e che inoltre «riecheggiano i tempi, riproducono il ritmo del giallo, contrassegnate da sense of humour». Non è proprio una riabilitazione completa, certo però l’articolo rende all’artista Greene ciò che è suo, indipendentemente dall’ortodossia religiosa.
Il fatto è che intorno all’equivoco «morale» gira sempre la sua fortuna: cominciando dal mancato conferimento del Premio Nobel nel ’61, quando fu relegato dai giudici svedesi al secondo posto, alle spalle di Ivo Andric, a causa di una presunta «preoccupazione monomaniacale riguardo alle complicazioni erotiche». In realtà il suo complesso cattolicesimo lo portò a dipingere il protagonista de Il potere e la gloria come un prete ubriacone e debole, caduto in peccato di concupiscenza con una donna messicana, eppure capace del sacrificio estremo di fronte alla persecuzione. Difficile da digerire nel 1940, quando il romanzo uscì, mentre oggi c’è chi lo considera la prova letteraria più alta scritta da un cattolico nel secolo scorso.
(Dario Fertilio, pag. 25, Corriere della Sera, 23-1-12)
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