Accade di rado che nel corso di una lettura si abbia la sensazione di vivere un’esperienza fondamentale, di leggere cioè un libro che porteremo per sempre con noi. E più si procede nel nostro percorso di lettori, più invecchiamo, più rare si fanno le folgorazioni. Non dubito che se avessi letto Respirazione artificiale quindici o vent’anni fa il mio destino di scrittore, oltre che di lettore, ne sarebbe rimasto segnato. Ma è andata diversamente. Lo leggo soltanto ora nella superba traduzione di Gianni Guadalupi (Edizioni Sur, pagg. 277, € 16), e pur ricavandone un’emozione intensissima, rimpiango ciò che avrebbe potuto farmi in anni più porosi e permeabili. Conoscevo già Ricardo Piglia. Avevo avuto la piacevole ventura di imbattermi in Bersaglio notturno, romanzo di sapore poliziesco, Soldi bruciati, romanzo di sapore analogo ma ispirato a un fatto di cronaca, e L’ultimo lettore, raccolta di riflessioni letterarie. Per quanto ottimi, nessuno di essi aveva però lasciato tracce indelebili. Tutto considerato, a colpirmi maggiormente era stata una cosa detta da Roberto Bolaño in un’intervista. Sosteneva che a Piglia piacciono le cattive traduzioni. Gli piacciono perché lo scrittore che considera suo maestro, Robert Arlt, si formò da autodidatta leggendo cattive traduzioni. Bolaño, preferendo quelle buone, considerava questa passione di Piglia una frivolezza, una specie di vezzo. Anch’io, come tutti del resto, preferisco leggere un testo ben tradotto, nondimeno la faccenda mi incuriosì; vi intravedevo qualcosa di profondo riguardante la natura più intima dello scrivere. Mi sarebbe piaciuto saperne di più. Se mai dovessi incontrare Piglia gli chiederò lumi, mi dicevo. Ignoravo che i lumi erano a portata di mano, offerti in forma mirabile proprio in uno dei pochi libri di Piglia che non mi ero preso la briga di leggere. Non ignoravo tuttavia che Respirazione artificiale è il suo libro migliore. A tal punto migliore che, dopo averlo liberato per le stampe, e parliamo di decenni fa, Piglia non lo ha più riletto per il timore di dover constatare che non ha mai più scritto così bene.
Lo scrisse sul morire degli anni 70 del secolo scorso, un periodo che per l’Argentina significa desaparecidos e Guerra Sporca. Piglia lo visse a Buenos Aires, “una città oscura, in quegli anni”. Abitava in un monolocale prestatogli da un’amica esiliata a Parigi. La finestra affacciava su Plaza del Congresso dove i militari stendevano tappeti rossi per le loro cerimonie. Una camera con vista sulla dittatura. E proprio così viene il più delle volte definito il romanzo che, tra il luglio del 1977 e il marzo del 1980, tra quelle mura fu scritto: il ritratto in codice di un paese oppresso e torturato. Ed è forse per questo se, a lungo e scioccamente, me ne sono tenuto alla larga: perché me lo figuravo come un lamento politico camuffato da romanzo. Inoltre, conoscendo l’inclinazione argentina al labirinto, immaginavo di affondare in un ginepraio di criptiche allusioni a vicende di cui avevo nozioni vaghissime. E non sbagliavo. Nel romanzo vengono snocciolati a profusione nomi di generali, capi di stato, capi di rivolte, politici, attivisti, nonché di una nutrita schiera di intellettuali, scrittori, poeti, alcuni dei quali notissimi, ma molti oscuri o quasi, tant’è che questa nuova edizione italiana è confortata da un’appendice di note, un benvenuto filo d’Arianna tratto da una precedente edizione americana tradotta e curata da Daniel Balderstron. E proprio Balderstron, nella sua prefazione, rivela quanto poco piaccia a Piglia che Respirazione artificiale venga considerato come il mero prodotto di uno stato di terrore. Ritengo, dice Piglia, che una finzione narrativa sia comunque in codice, in qualunque contesto essa nasca. La letteratura non è mai diretta, dice, e così dicendo l’assimila in sostanza alla traduzione, a sua volta espressione indiretta, riscrittura di un testo già esistente.
Il romanzo ha inizio nell’aprile del 1976, subito dopo il colpo di stato del 24 marzo, ed è dedicato a due amici, due fra i tantissimi scomparsi in quei giorni bui, Elías e Rubén, “che mi aiutarono a conoscere la verità della storia”. Due indizi forti, così forti da sembrare inequivocabili. Che nel prosieguo del romanzo la dittatura militare al potere in quegli anni sia pressoché assente non dovrebbe pertanto importare. Lo scrittore doveva tutelarsi, mettersi al riparo dalla censura. Perciò ci ha fornito subito la chiave: perché tocca a noi aprire la porta. Perno dell’esile intreccio è inoltre un uomo che mai compare sulla scena se non in maniera indiretta. Potremmo definirlo un nunca aparecido. Apprendiamo delle sua esistenza per via epistolare o attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto. Quest’uomo, Marcello Maggi, un professore di Storia e dal passato torbido che vive in esilio più o meno volontario a Concordia, sperduta cittadina di provincia, lavora per anni a un libro su un certo Enrique Ossorio, un presunto traditore della patria morto suicida e del quale Maggi ha sposato una discendente. Nell’aprile del 1976 Maggi scrive al nipote, Emilio Renzi, che ha appena pubblicato un romanzo ispirato proprio alla torbida vicenda famigliare di cui il professore fu tempo addietro protagonista. A quanto pare, Maggi si sente in pericolo e intende lasciare a Renzi le carte del suo libro su Ossorio. Tra i due, che non si vedono da un quarto di secolo, inizia una irregolare corrispondenza e quando Maggi smette del tutto di scrivere, Renzi si reca a Concordia. Qui, anziché trovare lo zio, fa la conoscenza del suo migliore amico, un profugo polacco allievo di Wittgenstein, il quale lo intrattiene una notte intera in una conversazione o, meglio ancora, con un monologo nel quale l’espatriato alterna aneddoti a certe sue teorie, la sua filosofia della letteratura, fondata su un ipotetico incontro tra Hitler e Kafka. Come anticipato, la notte si risolverà in un’attesa vana. A Renzi, dello zio nunca aparecido, non resteranno che le carte a suo tempo affidate a Tardewski (così si chiama il polacco). Ma è evidente che il vero lascito è la fiumana di parole, i racconti di un intellettuale espatriato e fallito, che Renzi trascrive con cura e che costituiscono metà (se non più) del libro. Del resto già l’incipt è tutto un programma: “C’è una storia?” Come dire: C’è un romanzo? E un vero romanzo non c’è. Ci sono scambi epistolari, conversazioni, frammenti di un libro nel libro (anch’esso in forma epistolare) e i tentativi di decifrarlo da parte di un oscuro inquisitore. Ma soprattutto c’è la verbosa prolusione, culminante nel letto di morte di Kafka, la chiave per capire cos’è il libro e perché si intitola Respirazione artificiale. Un libro che si maschera da romanzo per essere altro. Il che non costituirebbe certo una novità, non fosse per il modo in cui Piglia scrive. Un modo che trascrizione continua, un continuo passare dal discorso diretto all’indiretto, dallo scrivere al riscrivere; un modo che è un motivo di fondo, un basso continuo che strega, irretisce, che costringe alla rilettura. Perché questo è un libro sulla vera natura dello scrivere. E il vero scrivere e per l’appunto sempre un riscrivere, la cui vera natura, a sua volta, consiste nel leggere e poi nel rileggere. E qual è in fondo l’intima natura del rileggere, dell’interpretare, se non quella d’essere una sorta di cattiva traduzione? E già so che questo farò. Non farò come Piglia. Diversamente da lui, rileggerò il suo libro, la sua ipnotica cattiva traduzione. Lo rileggerò per seguitare a rileggerlo, sicuro di non staccarmene mai più.