Gianni Priano, Genova (1962), di mestiere fa l’insegnante in una scuola che riesce ad essere di frontiera pur trovandosi nel cuore della città. Ha pubblicato le solite recensioni, i soliti versi, i solitissimi racconti su riviste sparse e diversi libri di, chiamiamole, poesie oltre a un testo di semi- critica letteraria, Le violette di Saffo (Il Ponte del Sale, 2011). Cura Il Foglio, rivista culturale della Biblioteca ‘Adriano Guerrini’ di Tiglieto. Un cd di canzoni con testi suoi e musica e voce di Giovanni Peirone è appena uscito e si intitola, sommessamente, non è niente. Appena può, scappa ai Pliz, nella sua casa collinare piantata nel matrio Alto Monferrato, tra prati incolti che furono vigne e boschi nei quali è ritornato il lupo. Con Pentàgora ha pubblicato Gioghi di parole(2018) e – insieme con Simona Ugolotti – Stradiario Genovese(2019). E’ in lavorazione, sempre presso i tipi di Pentagora, un altro libro che tratta di bestie di dentro e di fuori.
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Caro Gianni hai voglia di parlarmi un po’ di te?
Che vuoi che ti dica, caro Oliviero. Sono contento che tu mi abbia pescato togliendomi dall’acqua limacciosa, verdemarrone, nella quale nuoticchio o meglio sto (malamente) a galla. Acqua quotidiana, implacabile. Che qualche lama di sole, qualche lampo di rosa ogni tanto accende. E abbaglia. Son qua da te, con te, perché scrivo: e meno male. Se non scrivessi (e sono tanti i poeti, gli scrittori che non scrivono niente, niente di niente) non potrei parlarti. Ecco, da questo bisogno di chiacchierare, di stupire, di consolarmi e consolare, di sottolineare l’angoscia mia e degli altri (sottolinearla con la matita blu, quella per gli errori grossi) viene fuori l’azione del mio scrivere. Del mio, ma suppongo anche di molti altri, forse di tutti. Vedi, Oliviero, quante parole per dire quasi niente? È che alle parole mi ci aggrappo, le sfrutto. Povere parole.
Mi hai risposto in prosa poetica, gran piacere per me perché so che è viva e sincera e per i lettori. Come nasce e si sviluppa il tuo lavoro?
Scrivo poesie e scrivo prosa, come sai. Ma se mi chiamano poeta non mi volto, o se mi volto mostro una faccia infastidita. Se mi chiamano scrittore, invece, sono contento. Mi piscio sotto dal piacere. Poeta infatti non sono. Piuttosto penso a me come a un bravo costruttore di versi. Bravo, insomma. Diciamo bravino. Il primo libro che ho scritto, nel 1991, era proprio un libro di versi per la casa editrice Genesi di Torino. Si chiamava L’ombra di un imbarco. Per pubblicarlo pagai un milione di lire. Poi, per scrivere, non ho mai più pagato. Ma lì funzionava così: ti pubblichiamo solo se compri un tot di copie per il valore complessivo di un milione. A Genesi arrivai per caso (se c’è il caso), in questa maniera: mentre andavo al camposanto di Voltri incontrai, sulla strada, un omino. Era il pittore e scrittore di cose di montagna Carlo Arzani. Abitava a Milano, ma aveva parenti a Voltri.
Cominciammo a parlare in quella strada che più che una strada è una stradina, sulla rive droite del torrente Leira. Una stradina sconnessa e lugubre allora e, oggi, ancora più sconnessa e ancora più lugubre. Sovrastata da un ponte autostradale, popolata di gatti forse antropofagi, buia. Distante di un bel po’ dall’abitato. Chiacchierando venne fuori che lui era vicedirettore della banca da cui si serviva (ci si serve dalle banche?) Montale, quando era vivo. E mi disse che insomma, sì, conosceva abbastanza bene il poeta. Poi, quando gli confessai che pure io scrivevo, mi chiese di mandargli le mie cose.
Gliele mandai, lui mi propose alla poetessa Liana De Luca (specificando che si trattava di una bella donna “un po’ d’età”), la quale presentò a sua volta i miei lavori (chiamiamoli così) all’editore. E via.
Questo per dire del cominciamento, di come un giorno tu prendi, ti incammini per andare a trovare tuo padre morto da due mesi e ti succede una cosa così. Perché in quel momento lì, su quella strada lì, c’è quell’uomo lì: Carletto Arzani. Che poi farà una fine paradossale: seguendo il carro funebre sul quale c’era la bara della vecchia madre, ebbe un incidente (forse tamponò lui stesso il carro funebre) e morì sul colpo insieme ad alcuni familiari che erano in auto con lui.
Be’, dopo L’ombra di un imbarco non è che mi montai la testa. C’era proprio poco da montarsela. Avevo pagato e mi avevano pubblicato. Inviai il libro a destra e a manca (che so: a Franco Fortini, a Elio Gioanola, a Paolo Conte, a Barberi Squarotti, a Marcello Venturi e a Camilla Salvago Raggi, a Franco Contorbia, ad Aurelio Valesi, a Sebastiano Vassalli, a Nicola Ghiglione, ad Adriano Guerrini, a Lucetta Frisa, a Giorgio Gazzolo: mi risposero – questi sì, altri no – tutti molto gentilmente).
Lo inviai, il libro, anche alle riviste di allora, per esempio a Il Babau. E qua ebbi la sorpresa della recensione di Maurizio Puppo, uno che conosce bene la letteratura, che ha lui stesso una bestiale, vocazionale capacità di scrittura. Puppo è un intellettuale dello spreco di sé. Si accontenta di stare ai margini. Vive a Parigi, ma sta ugualmente ai margini. Questo è il suo bello.
Al Babau c’era anche Carlo Marenco, uomo ironico e schivo, che la cultura non la sventaglia ma se la tiene in tasca. Capita di farci il viaggio in treno, lui sbadiglia e parla di belinate e zac, se ne viene fuori con una frase a cui poi tu pensi tutto il giorno. C’erano allora anche Alberto Nocerino e Alessandro Guasoni ma, a quei tempi, non ebbi modo di incontrarli e di parlare con loro.
Leggerti è un tuffo non tanto e solo nella tua storia, ma respirare un’aria antica, anzi nuova.
Alle riviste (ne nomino, dopo Il Babau, tre o quattro che mi vengono in mente: Resine, Atelier, Fotocopianda, Versodove) presi a mandare i miei versi e qualche racconto. Ma più versi. E iniziai a pubblicare ogni quattro o cinque anni un libro.
Negli anni Novanta si facevano le letture, ma non tantissime. Mi pare che il boom sia scoppiato dal Duemila in poi. Anche se il Festival di poesia di Pozzani era già bello che in piedi e già in gran forma da un pezzo.
Ho conosciuto tutti i miei editori i quali (a parte il primo) non mi hanno mai più chiesto una lira per pubblicare. E con ciascuno di loro ho mangiato almeno una volta (con Ettore Ferrero e Marco Munaro ho pranzato, cenato, fatto colazione con caffè e latte innumerevoli volte, essendo diventati subito amici).
Comunque ho messo su un discreto numero di libretti di versi: L’ombra di un imbarco e Città delle Carle infelici con Fotocopianda-Primalpe, di Ettore Ferrero; Nel raggio della catena con Atelier, di Marco Merlin e Giuliano Ladolfi; La Turbie con il Ponte del sale, di Marco Munaro; Rossocuore con Genovainedita, di Tina Cosmai e Riccardo Grozio. Adesso è in preparazione un libro (l’ultimo? Il penultimo? Il terzultimo?) con la casa editrice Bonanno.
Così, con questa roba in saccoccia, che a mano a mano cresceva di volume, sono andato in giro a “dire le poesie”. Cosa che in principio, come forse è normale, mi imbarazzava (agli inizi inizi, mi terrorizzava) e che ora mi diverte perfino un po’. Parlare alle persone attraverso la pagina, credo comunque che sia quello che un poeta vero dovrebbe davvero fare. Starsene in casa, scrivere, pubblicare. Ma io un poeta non sono, sono uno che nemmeno ha il problema di essere dimenticato perché neppure sono un granché presente al mondo. Sai, i leoni da tastiera, come si usa dire oggi? Ecco, su Facebook sono mordace, nella vita scantono. Il peggio del peggio. E poi, appunto, essere poeti è un’altra cosa. Bisogna scrivere “cigola la carrucola nel pozzo”, “e s’aprono i fiori notturni” eccetera. Cose che spaccano quella che Kafka chiamava “la lastra di ghiaccio che è in noi”.
Poi c’è la prosa. E qui se mi chiami scrittore, mi ripeto, dico: sì, presente.
Ho scritto tre libri di prosa e un quarto è in cantiere. Il primo è uscito con il Ponte del sale, si intitola Le violette di Saffo e racconta quattro professori famosi, non perché fossero professori ma perché erano dei giganti della letteratura: Camillo Sbarbaro, Luciano Bianciardi, Cesare Pavese, Pier Paolo Pasolini. Di loro racconto soprattutto il mestiere di insegnante. Potrebbe essere un libro di critica, ma non lo è. Del critico letterario non ho nessuna o quasi nessuna delle caratteristiche (oggi si parla di competenze, ma per il termine competenza, va a capire perché, ho una furente idiosincrasia). È un libro di racconti, invece. A proposito di parole, la parola racconto trovo sia meravigliosa: ha la meraviglia dentro. La meraviglia, l’eccitazione, la curiosità, la pace, la guerra, il torpore. Tutto.
Gli altri due libri narranti, li ho fatti con la casa editrice Pentagora. Una bella casa editrice per la quale dà sudore, anima, corpo Massimo Angelini. Che è uno da conoscere. Ma che credo sia impossibile conoscere davvero, tanto è fondo, oscuro, spesso. Fatto sta che ha messo su queste edizioni, che pubblicano cose davvero buone. Gratis. Anzi: Massimo ti paga i diritti d’autore.
La casa editrice ha una vena ruralista, si scrive molto di semi, di piante, di agricoltura. Ma non solo. I miei due libri (e neppure, direi, il terzo) ruralisti non sono. Se non forse in una eco, in una radice.
In Gioghi di parole si racconta, a partire da una parola, una storia ambientata tra Liguria e Piemonte. Per me la Liguria (che è donna) è patria, terra del padre e il Piemonte (che è uomo) è matria, terra della madre. Siamo nel transgender.
Scherzo. In realtà, si tratta di racconti, lacerti, scampoli fatti di pensieri, cose, vicende. Ha illustrato il libro il mio amico Alberto Folli, il quale, più che l’illustratore, è a sua volta uno scrittore. Insomma, i disegni presenti in Gioghi di parole li ha fatti questo scrittore, che risale torrenti alla ricerca della fonte sorgiva. Non si tratta di una metafora. Lui fa proprio questo. Si arrampica su per le pietre e dentro l’acqua di torrenti come il Cerusa, l’Orba, l’Argentina e altri.
Invece Stradiario genovese è una guida che non guida mica poi tanto. Semmai “disguida”. Anche qui c’è Pentagora, e ci sono le strade di Voltri e di Genova. Ogni strada, ogni vicolo, un racconto, un pettegolezzo ,un fatto di cronaca magari di un secolo fa. Anche questo è un libro disegnato. I disegni sono di una persona-personaggio da film felliniano. Di una persona che tanto più è personaggio quanto più è persona. E, vale la pena di precisarlo, viceversa. Lei si chiama Simona Ugolotti ed è figlia d’arte. Già suo padre trafficava con la cultura. Si dava del tu con Edoardo Guglielmino, “il medico della mala”. Mi pare che abbia collaborato anche con Gian Piero Alloisio, se non sbaglio. Simona ha vissuto per decenni sulla montagna ligure, in Valbrevenna. Lì gli inverni sono bastardissimi. Lei coltivava, faceva la legna, accendeva il fuoco, stava dietro alle bestie (capre? pecore?). È durata parecchio. Poi è tornata a Genova, adesso abita nel centro storico. In determinati giorni della settimana la si può trovare che canta ed espone i disegni nel trivio tra San Siro, San Luca e Via Fossatello. Il trivio è anche una specie di piazza scoscesa, uno slargo sbilenco. Che è stato battezzato Largo alla Cantadina. Perché Simona è stata contadina e anche canta. Quindi Cantadina. I disegni sono bellissimi, per quel poco o niente che questa parola vuol dire. Che, poi, poco o niente un belino: bellissimi significa bellissimi. Andate e guardate.
Il prossimo libro pentagoreo sarà sempre disegnato da Simona e avrà due copertine. Si tratterà, insomma, di due libri in uno che – a metà – si incontrano.
La mia coinquilina è Barbara Bizzarri. Non l’ho mai vista, ma ho letto le sue cose e mi piacciono.
Poi c’è la musica. Con Giovanni Peirone, musicista di Porto Maurizio, abbiamo fatto un cd. La cui uscita, con timbro Siae e tutti i crismi, è imminente. Ha un titolo, Non è niente, e contiene sedici canzoni.
Giovanni fa il professore di lettere in una scuola che ha lo stesso nome della scuola nella quale insegno io e che aveva lo stesso preside che ho adesso io. Coincidenze davvero strambe. Che canzoni sono? Intanto bisogna dire che le abbiamo registrate artigianalmente, senza tante musse. Sia chiaro: se uno è bravo, affermato, lo fa di mestiere eccetera, le musse non sono affatto musse. Per noi che, soprattutto, abbiamo giocato, il livello tecnico che abbiamo raggiunto basta e avanza. Giovanni è bravissimo alla chitarra e ha una voce curiosa. Cioè, che incuriosisce. Piacevole. I testi delle canzoni, nati come poesie e poi solo poco poco cambiati, sono miei. E l’esperimento mi diverte. Ogni tanto mi diverto un po’ anch’io. Che vuoi farci.
Cercheremo di scoprirti anche sotto questa veste, Gianni.
Tra i posti in cui sono andato a leggere, il primo che devo nominare è la “Stanza della poesia”, a Genova. Uno stanzino a pianoterra in piazza Matteotti, nel complesso del Palazzo Ducale. A gestirne il via vai sono Claudio Pozzani, inventore del festival di poesia nostrano, insieme a Barbara Garassino e ad altri poeti/poete: Marco Ercolani, Francesco Macciò, Daniela Bisagno, Massimo Morasso. Tutti insieme fanno parte del comitato scientifico della stanza. Qualche anno fa nel comitato c’ero pure io ma, all’uscita di Stradiario, mi sono ritrovato in un turbine di presentazioni che non ci capivo davvero più niente. Scuola, lavoro, presentazioni-show (perché con Simona non esiste presentazione senza show) e una spiccata attitudine all’ozio han fatto sì che un pomeriggio d’estate prendessi il cellulare e comunicassi a Barbara che non riuscivo a stare anche nel comitato. Ero già pieno di cose.
Poi, degli altri posti nei quali ho letto, a venirmi in mente sono il museo “Tubino” di Masone; la biblioteca “Mandela” di Tagliolo; la trattoria “T/Terra” a Genova; il circolo “Il Grimaldello” sempre a Genova, in via della Maddalena; un locale della Coop a Ovada; la biblioteca “Marcello Venturi” di Molare; la “Tana del luppolo” a Lavagna; la libreria Zafra a Chiavari; una trattoria di cui non ricordo più il nome a Casella; lo studio dello scultore Francesco Cento a Voltri; la biblioteca di Santo Stefano Belbo; una bella rassegna di poesia organizzata a Sermide da Zena Roncada e potrei avere finito la lista. Insomma, vado poco in giro. Abbastanza però da sembrarmi, questo poco, troppo.
Dicevo dell’ozio: Be’, penso si tratti di una vocazione autentica. Forse la più autentica tra le mie. L’ozio mi chiama forte. Mi vuole. Io lo ascolto, ma vorrei ascoltarlo di più. Non sono un amante degli impegni, dei compiti a casa.
Il mio ozio ha anche un luogo. Si trova nell’Alto Monferrato e si chiama Borgo Peruzzi (nella lingua madonnarocchese, Pliz). Lì ho trascorso tutte le estati della mia vita fino ai quindici anni. Dai primi di giugno alla seconda metà di settembre. C’erano i miei nonni materni, c’erano le vigne. Ho visto, come in un sogno, il bue portare il carro, mio nonno zappare intere colline di vigneti. Ho visto arrivare l’aratro a motore, il trattore e la macchina del verderame a mano finire in un angolo della ex stalla, sostituita da un aggeggio mastodontico, da portare sempre sulle spalle, dotato di pompa. Tutto questo l’ho visto io, l’hanno visto i miei cugini e l’ha visto mio fratello Nico, che scrive libri gialli di ambientazione monferrina e, anche lui, poesie. Portavo l’acqua di viscì a mio nonno, che lavorava nelle firagnere (i filari) di dolcetto, barbera o moscato. Quello è il posto nel quale, tra tutti i posti che conosco, sto meglio. Ho piantato degli alberi (albicocchi, amareni, un caco, due gelsi, un banano, una palma, un salice, due castani, qualche nocciolo e mi prendo cura delle roveri cresciute spontaneamente. Ho anche un vecchio pero di circa cent’anni e i noci, i meli), che però fanno e non fanno – quelli da frutto – perché mi limito a dargli da bere d’estate. Altra attività è il taglio (anzi i tagli) dell’erba.
Per il resto leggo, vado nell’Orba, faccio vita di famiglia e bei giri con la bici elettrica. Giro per piccoli paesi. Appoggio la bici al muro e vado al bar. Questo mi dà una grande soddisfazione. In quei bar capita molto spesso che scriva. Così, tanta prosa e tanti versi hanno avuto origine, che so, in un bar di Cassinelle, Molare, Morbello, Visone, Prasco, Cremolino, Rocca Grimalda, Ovada. Il mio sogno (mica ce l’ha solo Briatore i sogni) è quello di trasferirmi, un giorno, ai Pliz. Non so se tutto l’anno o – almeno – da metà febbraio a metà dicembre. Senza tagliare con Voltri, naturalmente. Perché Voltri sono i figli, i Priano (mio padre, il nonno Baciccia, la nonna Manìn, gli zii Andrea e Maria Assunta, via Guala) e, lungo la strada del sale, la Casa rossa sul Cerusa,. Che non c’è più (è rimasto un portale), ma c’è. Sì, tre mesi a Voltri e nove ai Pliz potrebbero essere una giusta chimica, una buona sistemazione.
Una ultima cosa a cui tengo e che vorrei nominare è Il Foglio, della biblioteca “Adriano Guerrini” di Tiglieto.
Tiglieto è un paese ligure che confina con il Piemonte. Siamo sull’appennino. A Badia di Tiglieto si riferisce anche una nostra e mia buona scrittrice, Camilla Salvago Raggi. Nostra in quanto ligure e mia in quanto piemontese d’adozione. Su Badia la Raggi ha scritto un libro a mio avviso formidabile: L’ultimo sole sul prato. Camilla è anche moglie di un grande scrittore neorealista e post neorealista, Marcello Venturi (autore di Bandiera bianca a Cefalonia e Il padrone dell’agricola).
Tornando a Il Foglio, mi piace dire che ne sono da qualche anno il direttore editoriale. Prima di me c’ è stato Giovanni Meriana, che con Michelangelo Carlo Pesce e Giovanni Battista Merlo ha costruito le ossa e la polpa della rivista.
Avrei mille cose ancora da dire. Tutte inutili, tutte piccolette. Non ho luci da donare al mondo, come vedi. Solo fessure di porte socchiuse. Porte di dispensa, di case di mezza campagna (non c’è solo la mezza montagna, c’è anche la mezza campagna) lasciate sole.
Ti ringrazio di cuore, ma credo anche i lettori. Da ogni tua parola ne escono dieci. Al momento ci facciamo bastare questa tua narrazione e ti ringraziamo.
Intervista a cura di Oliviero Malaspina