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Ricardo Piglia. Pena perpetua

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Ci sono scrittori, come Zweig, come King, che ti fanno sedere sopra una sedia e ti raccontano una storia.

Ci sono poi quelli come Gusmán, come Polleri, come Bernhard, che entrano nel tuo studio e, ronzando per la stanza come mosche, ti rovesciano addosso le loro paranoie e tu senti le mura che si stringono e si dilatano seguendo la spirale architettonica del discorso.

Ricardo Piglia, invece, come Fresán, come Borges, ti porta a spasso, passeggia con te, sale sui ponti, affronta i sottopassi e ti racconta tante storie, alcune interrotte, altre sospese che poi vengono riprese e il discorso segue un flusso sconnesso, dove ci sono così tanti personaggi che ti perdi all’inizio e ti senti spossato mentre cerchi di stargli dietro, perché loro, questi scrittori virtualmente peripatetici, danno quasi per scontato che tu sappia sempre di chi e di che cosa loro stanno parlando e poi, torni a casa, sei solo, chiudi il libro, ti distendi un secondo e capisci. Le storie, le parole, le frasi, si sistemano nella tua mente e ti rendi conto che tutti i puntini, ora uniti, hanno una forma sola, un disegno. Adesso che hai capito, ti viene quasi voglia di rifare la strada daccapo, perché ora che ti sai orientare sarai capace di cogliere molti più particolari di tutto quello splendido paesaggio narrativo in cui ti hanno trascinato.

Pena perpetua, che in Italia è stato portato da Wojtek edizioni, grazie al lavoro di traduzione di Federica Arnolfi e Alfredo Zucchi, contiene due racconti lunghi che si intitolano Pena perpetua e Incontro a Saint-Nazaire.

Queste nouvelle includono tante altre microstorie, con tanti personaggi e, anche se sono state concepite come opere diverse, sono gemelle.

Ci sono, nelle due storie, personaggi che tornano, situazioni che si rincorrono e che vengono accennate nel primo racconto e che meglio si spiegano nel secondo.

I personaggi principali sono Emilio Renzi in Pena perpetua e Stephen Stevensen in Incontro a Saint-Nazaire, due maschere che già erano presenti in Respirazione artificiale e in La città assente, che sono libri bellissimi, tra i suoi più famosi e riusciti e che si legano come una catena sola ai racconti che Wojtek ci presenta.

Il romanzo moderno è un romanzo carcerario. Narra la fine dell’esperienza. E quando non ci sono esperienze la storia avanza verso la perfezione paranoica…”

In questo modo, Piglia, riassume tutto il romanzo del 900, il romanzo moderno e quello contemporaneo. La grande capacità di Piglia sta nella semplicità del linguaggio, una semplicità quasi chandleriana, con cui ti spiega concetti estremamente complicati che passano da un paradigma degli scacchi ad argute riflessioni sul linguaggio, fino a dinamiche storiche e biografiche, alternando tutti gli strumenti tecnici di cui uno scrittore dispone.

Questo maestro argentino sembra un fabbro che alterna tutti gli strumenti necessari per forgiare una maschera d’acciaio. Il diario, il racconto classico, gli elenchi, sono solo alcuni dei registri narrativi di cui si serve in questi racconti per forgiare i volti di Emilio Renzi e, soprattutto, di Stephen Stevensen.

Il racconto Incontro a Saint-Nazaire è un piccolo saggio di tecnica narrativa in cui Piglia costruisce un personaggio attraverso la frammentazione per entrare dentro tutta la sua complessità, dentro le sue deliranti teorie sulla ripetizione.

In una nota alla fine del libro Piglia scrive:

Incontro a Saint-Nazaire è stato scritto durante un soggiorno di tre mesi presso la Maison des écrivant étrangers et des traducteurs. Gli strani eventi che sono accaduti in quel luogo non rendono opaco il ricordo dei giorni belli…

Il direttore ha provato ad avvertirmi rispetto a ciò che mi attendeva … Mi ha detto di non dare confidenza all’ospite che aveva lasciato l’appartamento la sera del mio arrivo… La storia che ho scritto è un effetto di questa incomprensione…

Questa nota, posta alla fine del libro e che sembra invece l’inizio di uno di quei racconti gotici di Patricia Squires, l’ho letta decine di volte come cercando di penetrare un arcano. La storia di Piglia è così strana, allucinata, che poi, dopo aver letto queste poche righe, uno si chiede se sia realmente accaduta o cosa lo sia e cosa no. Se Stevensen esista, se sia stato ospite alla Maison prima di Piglia o sia un fantasma che la perseguita.

E poi ho pensato che l’arcano effettivamente esiste e che la soluzione è davvero in questa nota astutamente posta alla fine del racconto. Piglia attraversa costantemente la linea di demarcazione tra il credibile e l’incredibile. Come alcuni altri grandi scrittori argentini, Piglia ci mostra i confini del reale e li attraversa. Per farlo frantuma la trama, ci chiede un aiuto, un pizzico di pazienza e poi ci ripaga, lasciandoci interdetti e incapaci di capire se davvero abbiamo visto quello che ci sembra di aver visto.

Pierangelo Consoli

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Ricardo Piglia, Pena perpetua, Wojtek Edizioni, Pp. 130, Euro 16

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