Folle! È un termine questo che incute timore. Ma tu che ti appresti a leggere, come ti definiresti? A quale schiera pensi di appartenere? A quella degli stolti o a quella dei disturbati, per non dire folli? Se perfino mia madre mi ha rifiutato, come potresti tu comprendermi, a meno di non aver vissuto la mia stessa infanzia… ma ho veramente vissuto? E come? Ridicolizzato da un padre filosofo e medico, che mi trattava come un idiota, e che elogiava mio fratello maggiore Achille per le sue capacità? Mia madre desiderava una femmina e amava smisuratamente mia sorella Caroline… ma in me non ha riposto nessun sentimento di vita, nessun calore, nessun affetto, m’immagino di vivere… dunque, io non mi nutro di cose reali: il mio esserci è un pensiero. Cosa avrei dovuto fare per sfuggire alla realtà, se non costruirmi un mondo di parole, per fuggire il peso contingente delle cose… mi avverto morire e pur, crudemente, mi compiaccio della lenta agonia come l’epicureo che si tagliò le vene nel bagno profumato e perì ridendo, perché è l’unico modo di disobbedire a mio padre… e poi non è forse normale volere noi stessi abbandonare la vita, se siamo stati abbandonati da chi ce l’ha data la vita?
Quanti giorni, quanti anni ho trascorso seduto a pensare a nulla, disorientato in quell’infinito che intendevo afferrare, e che invece mi inghiottiva! Amavo perdermi, sottrarmi al rifiuto che ero, perché questo ero per la mia famiglia: l’idiota di famiglia! Un abisso ben più esteso e profondo si apre oggi innanzi a me. Un indicibile vuoto… vuoto di sentimento per la vita… quella mancanza dell’altro, impossibile per me collocare nell’Altro l’oggetto del mio desiderio, io coincido con il mio stesso oggetto o, come dici tu, con la mia stessa merda… io ero inesistente per mia madre, per il suo seno, per il suo sguardo, ero un oggetto di scarto. Un destino che mi ha forgiato esausto, ancora prima di aver portato il mio fardello, ansimante e accaldato antecedentemente alla corsa… ho dovuto lottare per mantenere fermo il mio proposito di diventare scrittore, affidare alle parole la mia inesistenza e trasformarla in vita pulsante…
Nel suo delirio, il pensiero vagava in terre inesplorate, al di sopra del mondo e degli uomini, delle costellazioni, ben oltre gli orizzonti conosciuti… era questa la mia difesa… immaginare che ci fosse un oltre la vita, che non fosse questa ferita contingente… oh! Se non ci fosse la poesia! Se non ci fosse la scrittura dove incastrare per l’eternità la vita, la vera vita… ma fino a che punto la poesia può abbassarsi e sopravvivere? Come può la parola esprimere quello che ha da dire, se non l’ho mai posseduta, la parola? La parola non era che una fiacca e remota eco del pensiero… a me il linguaggio è stato precluso, anzi, come dici tu, la parola, non mi è stata concessa la parola, o meglio, ero troppo passivo per accedere alla parola… amato male, mia madre si prendeva cura di me meccanicamente, senza ascoltarmi, senza ascoltare la mia parola, senza farmi parlare. Ero come una pietra scagliata nel mondo, e come un ciottolo sul limitare dell’abisso, chiusi gli occhi e mi buttai… rimasi laggiù, freddo e inerme, come la lapide di un sepolcro… a meditare… offeso, in collegio, in ogni mia inclinazione: a scuola, per le mie idee; durante la ricreazione, per la mia indole fugace e solitaria… mi perdevo nei sogni, nel vuoto del pensiero, nelle mie idiozie, perché non avevo voce in capitolo, mi mancava la pratica del dialogo, dello scambio amoroso, affettuoso, e sognavo, mi estraniavo e allorché mi destavo, e con gli occhi vieppiù traboccanti di sogni mi improvvisavo nel reale, tutti ridevano di me…
Di qui, secondo te, generano le mie melanconiche assenze… e non sbagli… e sarei sempre stato un buono a nulla, o tutto al più, destinato a divenire un pagliaccio, un domatore o un mediocre imbrattatore di carte… se, almeno nel sogno non avessi deciso di riprendermi mia madre, il suo amore… e i sogni parlano chiaro, e una volta sognai mia madre annegare: e l’acqua fluida limpida e quella voce che risaliva dal letto del fiume mi gettava in un abisso di rabbia impotente… e così, come dici tu, mi salvai identificandomi con mia sorella Caroline, che era l’oggetto prediletto dell’amore di mia madre: iniziai a fare l’attore per divertimento, giocando con la mia sorellina… e solo per ottenere un briciolo d’attenzione e d’amore dalla mia mamma… da passivo che ero, mi feci sognatore, spirito libero e beffardo, edificavo il mio destino e mi paventavo un’esistenza piena d’amore. Iniziai a oppormi a quel freddo desiderio di mio padre che mi voleva corretto e preciso come un burattino, non volli studiare Diritto, e mi rifugiai, per così dire, nell’epilessia… come dici tu, nella malattia psicosomatica, per fuggire l’imperio paterno: non mi è mai andata a genio la vita metodica, ad ore fisse, un’esistenza insomma da orologio… dove ogni cosa è prevista, programmata in anticipo… leggevo di tutto, perché nel mondo dei libri c’erano voci che mi potevano ascoltare, c’era la calda vitalità che nella mia esistenza mi era stata negata e mi mettevo in disparte con un volume di versi, un romanzo, una lirica… Byron, il Werther, Amleto… Giulietta e Romeo…
Finché non apparve lei, Maria: che sguardo, mio Dio! Com’era bella, quella donna!… alta, bruna, con magnifici capelli corvini che ricadevano in morbide trecce sulla schiena; il naso a profilo greco, gli occhi vivaci, i sopraccigli alti perfettamente arcuati, la pelle di un colore caldo, come vellutata d’oro… Quale desiderio mi tolse dal mondo del pensiero freddo e delle pietre… non saprò mai descrivere quali improvvise esplosioni emotive, quali ebbrezze del cuore, quali folli beatitudini racchiuda in sé l’amore! E le parole che uso non possono esprimere questo sentimento che nessuno mi ha mai trasmesso: come rendere a parole le cose inesprimibili, le impressioni del cuore, i misteri dell’anima che pur essa stessa ignora? Che ho sempre ignorato se non avessi preso in mano il mio destino? E l’amore che mi provocò lei, Maria, lei che era sposata, ovvio… si ripeteva il fantasma dell’abbandono e in lei, inevitabilmente, rivedevo mia madre, quale assurda e banale ripetizione infernale… di nuovo mi trovavo a competere con il suo oggetto d’amore, che non ero io. Ancora una volta lottavo perché lei mi preferisse a suo marito e la gelosia dette l’abbrivo a pensieri oscenamente grotteschi, la gelosia per suo marito visto che dava a lui tutto, a me nulla, così come fece mia madre che amava ciecamente mia sorella Caroline e mio padre che idolatrava mio fratello Achille… e io? continuavo a essere nulla… tutto ciò mi procurò un immenso rumoroso stordimento, a tratti pari alla follia.
Passò del tempo, ma non scordai mai più Maria, anche se volli dimostrare ai miei amici che non ero casto e che non avrei temuto alcuna avventura galante e in quel momento conobbi allora il rimorso, come se l’amore per Maria fosse una fede che avevo profanato... e lo avevo profanato perché avevo un pubblico che mi ascoltava, che mi dava retta… che stupido sono stato: aver amato, aver vagheggiato il cielo, aver conosciuto ciò che dentro è intimamente puro e incatenarsi, successivamente, nelle pesantezze della carne, vinti dal languore della lussuria! Aver sempre sognato il cielo e sguazzare nel fango! Eppure verranno altre passioni; forse mi dimenticherò di te, Maria; ma resterai inalterata in un angolo del mio cuore, perché esso se anche è una terra che ogni passione travolge, tiene in serbo le rovine dei precedenti amori… e così ho accettato che quell’amore materno negato, era perso per sempre, mi restava solo l’orrore della carne… ma dici bene quando mi consigli di continuare a scrivere, perché è lì che rinasco, che divento uomo: i miei rari momenti di entusiasmo li devo all’arte; eppure anch’essa, qual cosa inutile è… L’arte! L’arte! Se pure è cosa vana, di quanta grandezza è composto quel niente.
A volte, dubito anche di questo: agire, parlare, ridere, morire, tutto è insondabile dubbio…
Ecco perché ho detto che sei un folle, caro lettore che mi ascolti e m’incoraggi a vivere: tu credi di essere libero, t’illudi di poter scegliere tra il bene e il male… ti diranno di onorare il padre e la madre, di prenderti cura di loro allorché diverranno vecchi. E loro ti hanno fatto nascere, ma hai scelto tu di nascere con un’indole malinconica allegra, dolce o amara, moralista o viziosa, e con un corpo sano o malato? Noi siamo agiti dall’altro, da sempre, per sempre e ogni giorno agisci come un ingranaggio sollecitato da mille accadimenti. Non vedi che è tutto buio intorno? e che non esistono altro che tenebre attorno all’uomo? Certo, pensi a Omero, Shakespeare, ai grandi poeti, ai grandi uomini del passato e del presente… ma per quanto tu sia grande, al fine muori… Ma la scrittura mi ha salvato, la costruzione implacabile, tersa, fredda e monumentale degli eventi e dei sentimenti e tu lo sai, te lo dico per esperienza…
Nella scrittura, come tu mi hai spesso detto, ho compensato l’insufficienza reale, la debilità dell’esistenza, e costruirò romanzi, mondi autosufficienti, eterni come la morte, chiari e nitidi come il marmo delle lapidi…
Queste mie memorie volgono alla fine, chissà se di me resterà traccia, della mia melanconia, della mia noia… adesso quando sento suonare le campane, quel rintocco scandito come un gemito, prende il sopravvento dell’anima una malinconia vaga, un sogno indefinibile, come l’estremo fremere d’una antica vibrazione. E continuo a pensare, a ragionare e il mio è un pensiero immenso, inquantificabile! Avverto suoni, melodie, echi di un altro mondo, cose seppur immense, anch’esse destinate a finire… dunque sono un po’ più sereno e, fuori dalla scrittura, non m’illudo di alcuna felicità, perché dura un attimo, e non mi abbatto se soffro: il dolore è anch’esso un battito di ciglia… è così: tutto muore… tutto freme e poi finisce…