“The Penguin Anthology of 20th Century American Poetry” edited by Rita Dove.
C’è una poesia, in questa meravigliosa antologia della poesia Americana del secolo scorso, che da sola varrebbe l’acquisto del libro. L’autore è Robert Francis (1901-1987), nato a Upland, in Pennsylvania, laureato a Harvard, e per lungo tempo scrittore freelance nel Massachusetts. Fra i suoi “mentori” poetici c’era Robert Frost (un altro degli autori che gioca un ruolo da gigante in questa antologia), e senza dubbio la sua prima raccolta “Stand Here With Me” (1936) risente dell’influenza di Frost, soprattutto nel ruolo svolto dalla natura all’interno delle liriche. Negli anni successivi a questo primo libro Francis pubblicò davvero poco, ma decise che “volente o nolente” non avrebbe mai potuto smettere di scrivere versi. Nel 1960 uscì “The Orb Weaver” che lo consacrò definitivamente fra i più interessanti poeti americani. Ma questo non gli servì a ottenere il successo. Frost lo definì il “miglior poeta americano dimenticato” e Francis stesso, nella sua autobiografia “The Trouble With Francis” racconta i propri tormenti per la scarsa considerazione data alle proprie opere. La sua poesia è fatta di significati nascosti e rime interne e suoni e assonanze che creano una sorta di tela. È il caso della poesia inclusa nell’antologia di Rita Dove e intitolata “Silent Poem”, una serie di parole composte, disposte una dopo l’altra, senza connessioni se non i richiami fra una parola e l’altra, a creare una specie di tappeto sonoro. Una poesia che dà l’idea di una pioggia di parole, con un effetto ipnotico.
È uno dei tanti gioielli nascosti in questa antologia della Penguin, che ha suscitato parecchie polemiche, soprattutto sulle pagine del New Yorker, per le scelte molto personali fatte da Rita Dove, lei stessa una poetessa (di gran valore) e inclusa nell’antologia (con quattro componimenti). Ma i pregi delle scelte di Dove superano i difetti. Non risente dell’autorità ed esclude anche poeti molto noti, e privilegia una scrittura semplice e diretta allo sperimentalismo chiuso ed ermetico (in netto contrasto con l’elogio sperticato della “scrittura difficile” fatto da William H. Gass nella sua recente raccolta di saggi). Il libro mi è stato regalato dal poeta del Kansas William J. Harris, in visita a Roma e Milano durante lo scorso dicembre. Lui, poeta e studioso di poesia, mi ha parlato molto bene dell’antologia, proprio perché opera di un poeta e non di un critico. È un libro onesto insomma, e uno dei migliori sguardi alla poesia americana di questi ultimi anni.
E per un lettore italiano è anche la scoperta di un tesoro, anzi di una vera e propria vena d’oro. La poesia americana, soprattutto quella recente, è pubblicata in Italia male e poco. Autori regionali in America, come Edgar Lee Masters (sempre a Roma, Harris si è stupito quando gli raccontavo quanto da noi fosse famoso) sono qui dei classici, mentre trovano poco spazio nelle librerie autori anche celebri come Robert Frost. Ma Edgar Lee Masters, con il suo stile molto diretto, è comunque il poeta con cui Dove sceglie di aprire questo volume – quasi un manifesto programmatico. Seguono Frost, Gertrude Stein, Carl Sandburg, Wallace Stevens, William Carlos Williams, T.S. Eliot, E.E. Cummings – da noi abbastanza noti – e Hilda Dolittle, Robinson Jeffers, Marianne Moore, Jean Toomer – poeti fantastici che sono vere e proprie novità per un lettore italiano. C’è Hart Crane, sul quale sta per uscire un film diretto da James Franco (anche lui scrittore). C’è Langston Hughes con la bellissima “The Negro Speaks of Rivers” che ricorda i fiumi di Ungaretti (ci sono fortissimi punti di contatto fra le due poesie). Se può essere noto W.H.Auden, sicuramente è meno noto Stanley Kunitz. Così come a Elizabeth Bishop fa seguito Robert Hayden. Ampio spazio è dedicato alle magnifiche poesie di Gwendolyn Brooks (sei composizioni, si cui una, “We Real Cool”, vale la raccolta: “We real cool. We / Left school. We // Lurk late. We / Strike straight // Sing sin. We / Thin gin. We // Jazz June. We / Die soon.”) mentre solo una poesia è riservata a Lawrence Ferlinghetti. C’è un poeta e personaggio meraviglioso come Richard Hugo (ispiratore e maestro del romanziere Chuck Kinder). Ci sono Maxime Cumin, Frank O’Hara, Rober Creeley (a cui è riservato ampio spazio). C’è il nobel Derew Walcott e le poetesse Adrienne Rich e Anne Sexton – loro tutti e tre fortunatamente pubblicati in Italia.
E poi ci sono i poeti di oggi, quelli per noi più sconosciuti. L’unico nome un po’ nota è quello di Charles Simic, e forse quello di Mark Strand (credo che in Italia ci sia una raccolta edita da Mondadori). Ma le perle sono molte: Robert Pinsky, Robert Hass (entrambi hanno frequentato il celebre corso di scrittura creativa di Stanford, di cui ha fatto parte anche Wendell Berry, una delle assenze di cui forse pecca il libro), Tess Gallagher (la seconda moglie di Carver, lei sì, forse un po’ più nota in Italia), Yusef Komunyakaa (nome impronunciabile, ma grande autore), Gregory Orr, C.D. Wright, Franz Wright, Gary Soto, Marilyn Chin (altra “stanfordiana”), Sherman Alexie, Kevin Young. Un libro che dà l’idea di una poesia viva e multiforme, per nulla relegata al passato, che si è lasciata da un pezzo alle spalle Edgar Lee Masters e la nostra visione della poesia americana.
Nicola Manuppelli
“Sanctuary Line” by Jane Urquhart.
L’altro libro cui volevo accennare brevemente è un romanzo di un’autrice canadese, Jane Urquhart (1949-), pubblicata in Italia ma senza grossa fortuna, e che forse arriva con questo nuovo volume a scrivere la propria opera migliore. La conterranea Alice Munro (probabilmente la più brava scrittrice di racconti in circolazione) ha osannato “Sanctuary Line” come uno dei testi più commoventi nel descrivere il senso di appartenenza delle persone a un luogo. Il complimento non è da poco, visto che la trama si svolge in luoghi che sono quasi esclusiva dell’autrice di “Troppa felicità”. Come è stato scritto, nelle mani di Jane Urquhart il realissimo Sud dell’Ontario diventa una sorta di paesaggio immaginario – un po’ come Yoknapatawpha County di Faulkner. La narratrice è Liz Crane, ultimo membro della famiglia Butler, entomologa, che è tornata nell’ormai derelitta fattoria di famiglia – dove da piccola passava i giorni di villeggiatura – per monitorare la migrazione delle farfalle monarca. “Sanctuary Line” parla di decadenza – la decadenza di un luogo, delle persone, degli affetti, dell’amore – e dei residui che questa decadenza lascia nella memoria e nello spazio. In un certo senso è un libro di fantasmi, o di spiriti, ma scritto con una delicatezza e un’attenzione ai dettagli che davvero avvicinano la scrittura di Urquhart a quella di Alice Munro.
“Vivo in un posto dove devo confrontarmi con l’assenza ogni giorno,” dice Liz.
È un libro malinconico, ma in questa malinconia l’autrice incastra ricordi, piccole storie che costituiscono quasi dei nuclei narrativi a sé, e che emergono come veri e propri raggi di luce, sicuramente fra i momenti più alti della narrazione.
Jane Urquhart è autrice di sette romanzi, acclamati a livello internazionale. Fra questi da ricordare il primo, “The Whirlpool” (1986), e “The Underpainter” (1997). Ha scritto anche una raccolta di racconti e quattro libri di poesie. Divide la sua vita fra Canada e Irlanda.
Nicola Manuppelli