Qualcuno ha detto che gli scrittori non si discostano mai dal libro d’esordio. Jerome D. Salinger sembrerebbe esserne la dimostrazione: siamo nel gennaio 1940, l’uomo che avrebbe dominato la scena letteraria americana dell’immediato dopoguerra sta per compiere il ventunesimo anno di età quando dalla rivista «Story» gli comunicano che un suo racconto è stato accettato e verrà pubblicato a breve. Malgrado gli piaccia ostentare un atteggiamento distaccato, il giovane Salinger è ovviamente esaltato: dice che, fino al momento di quella pubblicazione, ogni giorno sarà per lui una vigilia di Natale. Nella primavera dell’anno precedente l’ambizione di diventare uno scrittore professionista lo aveva spinto a reprimere l’insofferenza per il mondo accademico e le scuole in genere. Si era iscritto a un corso serale di scrittura creativa presso la Columbia University, tenuto da Whit Burnett, guarda caso direttore di «Story».
L’aggettivo professionista, accostato alle ambizioni di un giovane scrittore, potrà forse sorprendere, ma è perfettamente in linea con la temperie di allora, ben sintetizzata dalle parole di Brendam Gill, per anni collaboratore del «New Yorker»: «È difficile per gli scrittori di oggi rendersi conto di quanti fossero i giornali che si contendevano racconti negli anni trenta e quaranta: ed è difficile rendersi conto di quanto li pagassero». Quanto è presto detto. Riviste come «Collier’s», «The Saturday Evening Post» e «Harper’s» rappresentavano la destinazione migliore per chi volesse campare di scrittura, erano chiamate «the slicks», le patinate, e arrivavano a pagare anche duemila dollari per un racconto. La vetta della sofisticazione era tuttavia costituita dal «New Yorker» e da «Esquire», rivista, quest’ultima, che si era costruita una reputazione pubblicando Hemingway e Fitzgerald. «Story» rientrava in un rango più basso, ma godeva comunque di una reputazione sufficiente perché un giovane di belle speranze potesse considerla un trampolino ottimale, tanto che in seguito Norman Mailer l’avrebbe ricordata come una leggenda: «Nei tardi anni trenta e in quelli della seconda guerra mondiale, i giovani scrittori sognavano di comparire sulle sue pagine all’incirca come il miraggio di un servizio su “Rolling Stone” può oggi mettere un giovane gruppo rock in uno stato trascendentale».
Il racconto con il quale Salinger realizzò il proprio sogno presenta, seppure in forma acerba, tutti i motivi e i tic dell’opera più matura. Il titolo suona quasi fasullo per quanto è smaccatamente salingeriano, «I giovani». Dietro suggerimento dello stesso Burnett, lo aveva già proposto a «Collier’s», portandolo di persona in redazione e ricevendo un rifiuto. Personaggi e ambientazione – ragazzi annoiati della buona società newyorchese – sarebbero stati perfetti per una rivista patinata, se Salinger non li avesse presentati sotto una luce tanto cinica. L’azione è ridotta al minimo, un tentativo di conversazione, durante una festa tra un ragazzo di nome William Jameson Junior e una certa Edna Philliips. Poiché attratto da una altra fanciulla, una biondina, William cerca di sottrarsi in ogni modo, bofonchiando o accampando scuse. Edna, mossa da un bisogno di attenzione tanto disperato quanto fine a se stesso, fa invece di tutto per trattenerlo, rivelandosi però vuota e insopportabilmente smorfiosa, tratti destinati a diventare ricorrenti nell’universo femminile salingeriano. In William sembra invece di riconoscere una vocazione all’assenza, al voler essere sempre altrove, tipica del giovane Holden e dello stesso scrittore. Il racconto venne pagato venticinque dollari e non segnò la svolta immediata che Salinger bramava. Ci vollero anni e molti rifiuti per approdare alle grandi riviste, e questo nonostante l’interessamento di Harold Ober, importante agente letterario dell’epoca. Dopo «Story», Salinger dovette accontentarsi di pubblicare su un giornale universitario del Kansas il racconto «Va’ da Eddie», anch’esso perlopiù dialogato e incentrato su una donna vacua. Tanto questo quanto I giovani, che dà il titolo al libro, vengono ora proposti per la prima volta al lettore italiano assieme a un terzo racconto di qualche anno più tardo e intitolato «Una volta alla settimana».
Nella pregevole postfazione al volume, Giorgio Vasta osserva giustamente come in ognuno dei tre testi lo spazio prevalente sia «l’oceano della chiacchiera, lo shakespeariano much ado about nothing, quella lingua nebulizzata utile non a far accadere qualcosa ma a far sì che non accada nulla (perché se nel linguaggio accadesse qualcosa di diverso dalla chiacchiera sarebbe la fine, meglio allora continuare a dire, procrastinare, dissipare, impedire; non accidentalmente è chiaro, ma perché la chiacchiera – il luogo in cui la lingua è gloria e miseria – è manutenzione dell’esistente, dispositivo di ciò che c’è: much ado about everything)». Ciò potrebbe bastare a perimetrare il quadro, se non fosse opportuno dare conto di un elemento ulteriore e tutt’altro che secondario. Per un breve periodo, mentre la strada dello scrittore professionista si prospettava più in salita di quanto sperato, Salinger fu sfiorato dalla tentazione di rinunciare e meditò di trasformare «I giovani» in una pièce teatrale. Pensò anche di riservare per sé la parte William, essendo bravo a «recitare sotto le righe». L’interesse per il mondo dello spettacolo non era novità per lui. Lo aveva sottolineato anche nella scheda di presentazione comparsa su «Story» in calce al racconto: «J. D. Salinger, ventun anni, è nato a New York. Ha frequentato le scuole pubbliche, un’accademia militare e tre università, e ha trascorso un anno in Europa. È particolarmente interessato alla scrittura teatrale». Volendo dire le cose nella loro completezza, Salinger era interessato pure alla recitazione. Anzi, per molti versi, questo interesse sembra addirittura precedere quello per la letteratura. Stando a un aneddoto, forse apocrifo ma ripreso dallo scrittore in un racconto, risalirebbe all’infanzia, a quando, appena settenne, fu giudicato il migliore attore di un campeggio estivo nel Maine. Anche nel profilo di una scuola frequentata da Salinger durante l’adolescenza si parla di un giovane «molto portato per il teatro» e «bravo a parlare in pubblico». Tra i suoi amici di allora, c’è poi chi lo ritrae come una persona che «parlava sempre in maniera pretenziosa come se stesse recitando Shakespeare». Pare inoltre che, dopo infruttosi tentativi di ottenere una scrittura nei teatri di New York, abbia lavorato per qualche settimana come intrattenitore su una nave da crociera.
In effetti, letti in questa chiave, «I giovani» e gli altri due racconti presenti nel volume rivelano una forte impronta teatrale. Sono atti unici perfetti. L’unità di tempo, luogo e azione è scrupolosamente rispettata. Le parti descrittive, ridotte all’indispensabile, servono unicamente a inquadrare scena e personaggi. Tutto avviene nei dialoghi, proprio come in una pièce. La chiacchiera non è dunque soltanto la dimensione volatile in cui i personaggi di Salinger vivono e si manifestano, non è soltanto una qualità dell’esistere, è anche, e forse soprattutto, un mezzo per fare teatro, per recitare, e più la conversazione è insulsa o superficiale e priva di significati forti, più la recitazione acquista peso. Dare spessore a un borbottio, a una parola pronunciata a mezza bocca, richiede più qualità che non recitare una bella frase. Non per nulla gli amici adolescenti parlano di un Salinger particolarmente versato nella mimica e molte sono le testimonianze che lo vogliono incline alla posa, a cominciare dal direttore di «Story» che lo ricorda sempre distratto durante le lezioni, sempre impegnato a mostrarsi con lo sguardo e la testa rivolti altrove. Molto si è detto dell’effetto parlato che rende inconfondibile la ruminazione dei personaggi di Salinger, ma molto dovrebbe dirsi anche su quanto il particolare flusso di coscienza dello scrittore sia legato a un’indole attoriale. Del resto, anche la successiva sparizione può essere intesa come il colpo di teatro di uno scrittore che, pur di restare giovane, invecchia nell’ombra, recitando il silenzio.
Il Saggiatore, 2015
traduzione di Delfina Vezzoli
postfazione di Giorgio Vasta
pagine 68