Il crollo del socialismo, la guerra, lo smarrimento di una generazione: storie tristi, divertenti e così vere da incidere la pelle della vita.
Robert Perišić è una figura di spicco nel panorama letterario, sia croato che internazionale.
È noto per la sua versatilità nella scrittura, che abbraccia prosa, poesia, opere teatrali e sceneggiature cinematografiche. Attualmente, è in libreria con la raccolta di racconti Disastri esistenziali e spese folli, (Bottega Errante Edizioni, 2023, pp. 208, € 17,00) con la traduzione di Elvira Mujčić.
Questa raccolta, Disastri esistenziali e spese folli, già uscita negli Stati Uniti con il titolo Horror and huge expenses copre l’intera carriera di Perišić e mette in luce la sua abilità nell’uso di una prosa incisiva e ironica per esplorare una vasta gamma di temi e registri.
Partendo dalla narrazione di tragici conflitti etnici e arrivando alle situazioni esilaranti e assurde del mondo globalizzato, Perišić riesce a esaminare il fallimento, la perdita e la bellezza dolorosa spesso nascosti in queste esperienze: “Si vergognava di fare il muratore, quindi, aveva inventato che si stava disintossicando dalla roba”.
Le pagine di Perišić ci immergono in realtà variegate: giocatori di bocce, abitanti dei quartieri periferici, anziani partigiani o stranieri che attendono il crepuscolo su una panchina di Central Park: “Ai ueit in de darc”.
Attraverso una sincerità disarmante, l’autore dipinge con audacia i fallimenti esistenziali e le perdite che definiscono la sua generazione, spesso scoprendo una bellezza struggente in mezzo alla desolazione.
Le storie raccontate in quest’opera sono ritratti vividi di vite costantemente sospese sull’orlo del precipizio, in un eterno equilibrio tra il male e il peggio: “Sandra stava raccontando qualcosa. Poi il suo volto è scomparso. Si è spento, non c’era nulla. Anche il tizio l’ha notato. Era una cosa imbarazzante, brutta, alcuni piccoli quadratini lampeggiavano al posto del suo viso. Continuava a parlare”.
Questo libro, è un tributo alla prosa acutamente ironica di Perišić, e i suoi racconti ci guidano attraverso riflessioni e momenti fugaci che, anche quando non li consideriamo, costituiscono il nucleo delle nostre vite.
Carlo Tortarolo
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La visita
Con Đani siamo andati a Zagabria, ci siamo rimasti un paio di giorni e siamo passati a trovare Tandar all’ospedale Vinogradska. Da quel che sapevamo stava là a disintossicarsi dall’eroina.
Lo abbiamo cercato, girando per i reparti, ma di lui nessuna traccia. Nessuno aveva sentito parlare di lui. Non ci crederete, l’ho scoperto dopo, aveva mentito dicendo che andava a curarsi, in realtà era andato a lavorare con un parente. Faceva il muratore a giornata. Solo che la disintossicazione dava un tono alla sua reputazione. Aveva raccontato a tutti la sua storia tragica. Era un tipo così. Si vergognava di fare il muratore, quindi aveva inventato che si stava disintossicando dalla roba. E tutti sembravano dispiacersi per lui. Mentre lo accompagnavamo a prendere l’autobus si era finto schizzato, e ora che so che stava andando semplicemente a fare il muratore a Zagabria…
Ricordo che eravamo rimasti alla stazione. Cioè, pensavamo, che cazzo di vita. Non avevamo la minima idea che si fosse impantanato così. E tutti a chiedere che cosa gli era capitato. Noi tentavamo di spiegare. Quell’estate andava in giro con Alen, con lui era finito dentro la droga. Pensa te. Alla fine verrà fuori che manco si è mai bucato.
Non importa.
Ecco cosa è accaduto all’ospedale Vinogradska: io e Đani chiedevamo di lui, ma nessuno sapeva nulla, noi continuavamo a insistere, perché doveva essere lì, chi poteva anche solo immaginare che lo scemo aveva inventato una storia del genere, e così, a un certo punto, ci siamo trovati in mezzo a delle tipe ricoverate per tossicodipendenza, alcolismo o per qualcos’altro in psichiatria.
Il reparto era organizzato bene, un palazzo a tre piani.
Abbiamo domandato di lui e invece loro ci hanno chiesto delle sigarette.
Nessun problema: nello zaino avevo una stecca di Opatija che avevo portato per Tandar. E via… Mi sono messo a distribuire sigarette, si è fatta una fila, Đani ha iniziato a punzecchiarle, cioè, voglio dire: ci provava. All’improvviso ci provava con tutte, come se fosse in discoteca, sai che tipo è e come ci prova. E loro erano dieci o quindici, non so, sembrava che fossero ogni istante sempre di più. Đani era nel suo elemento e continuava a dire cazzate, a quanto pare risultava spiritoso.
Io mi limitavo a distribuire sigarette, come se lo facessi per lavoro, e chiedevo di Tandar… Pensavo che magari era stato lì, ma poi lo avevano trasferito da qualche altra parte. Ero preoccupato, cioè, che non gli fosse capitato qualcosa, che non avesse fatto qualche cazzata, che non l’avessero trasferito in una delle due cliniche psichiatriche Vrapče o Jankomir… Avevamo sentito che quelli conciati peggio li mandavano là.
«Sarà alto due metri, sicuramente lo conoscete» ho detto di Tandar, ma loro mi guardavano e non avevano la minima idea di chi fosse.
Continuavo a dare sigarette. Alcune ne chiedevano due, poi tornavano ancora.
«Dai, che cazzo, non si può, così. Fino a quando?» ho detto.
Ho guardato Đani, ma lui stava già avvinghiato a una. Cioè, le aveva messo la mano intorno alla vita e poi sul culo. Cosa ci trovavano in lui non lo so. Se io fossi stato una donna mi avrebbe dato sui nervi. Anche così mi dava sui nervi. Ma dai, se la stava già facendo, ma come? E lei se ne fregava. Per di più era uno schianto.
Sculettava, si dimenava e poi gli ha detto: «Andiamo là dietro». Dietro il palazzo. Doveva trattarsi di una tossico-puttanella. Đani mi ha fatto l’occhiolino, ha storto la bocca mentre le teneva la mano sul culo, e se ne sono andati.
“E va beh, chi se ne frega” ho pensato. Fa niente, avrei aspettato. Ovviamente bisognava sempre aspettarlo.
Immaginavo che sarebbero andati là dietro solo loro due, invece piano piano tutte si sono mosse per seguirli. Passavano, io le guardavo e mi chiedevo dove andassero tutte. “E allora” mi son detto alla fine “vado anche io”.
Per questo ero rimasto un po’ indietro.
Quando sono arrivato: un casino. Lui era ancora là a palparle il culo mentre cercava di infilarsi nell’area di rigore. Gli occhi di lei erano allegri. Solo che aveva in mano un coltellino. Non sapevo dove l’avesse preso, però stavano scherzando con quel coltello. Ridevano. Đani era ancora nel suo elemento e le toccava le tette. Cioè, praticamente gliele vedevi, aveva solo una maglietta. I capezzoli spuntavano fuori. Ho guardato le altre donne lì intorno, sghignazzavano. Alcune giovani, altre più vecchie… Mi son detto che avrei potuto provarci pure io, ce n’era una bellissima, sorrideva, la guardavo, però poi mi chiedevo: “E che fare se è pazza?”. Cioè, nessun problema se era alcolista o tossica… Una bellezza da non crederci.
Ho guardato di nuovo nella direzione di Đani. La sua tipa continuava a maneggiare quel coltellino. A quel punto lo ha colpito sul petto a sinistra. Come per giocare. Lui ha fatto un salto lo stesso.
La guardava. Lei continuava a ridere come prima. Sembrava dire tipo: “Vediamo adesso se sei un figo e hai le palle, accetta il gioco, vediamo un po’ come te la cavi”. Đani ha sorriso, per il pubblico. Pure lui era un pazzo, non aveva paura. Ha ripreso a palparla. E lei lo ha colpito ancora, lo faceva sembrare uno scherzo. Però lui si è fermato.
«Ehi, dammi quel coltello» ha detto, in maniera ragionevole.
La ragazza era un po’ fuori. Però bisognava ammettere che era sexy.
«Ehi, ragazza, è tutto a posto» ho aggiunto io.
«Ehi, dammi qua» ha detto Đani. Invece lei ha preso ad agitare il coltellino davanti agli occhi, in maniera un po’ folle, come a dire: “Dai, prendilo”.
Allora lui l’ha afferrata per un braccio e con l’altra mano ha provato ad aprire il suo pugno. Ma lei ha lanciato un grido! Si sono voltate tutte.
Non capivo se lui l’avesse lasciata andare o se si fosse divincolata da sola, ma ora stava con il coltello davanti a lui. Lo fissava. Si è diretta verso di lui. Ehi, ho visto il panico nei suoi occhi. Eccolo, il figaccione! Non mi dispiaceva proprio del tutto quella situazione, perché si atteggiava sempre in maniera esagerata. Però dovevo aiutarlo.
Con lo sguardo girava intorno a sé, mi ha guardato, era agitato.
“Ecco, vedi!” avrei voluto dirgli. Mi sono avvicinato. Allora la tipa si è rivolta verso di me con il coltello e non scherzava.
Mi stavo cagando sotto e non so proprio come sia successo, sono stato veloce, l’ho afferrata per un braccio, le ho girato la mano e il coltellino è caduto a terra. Col piede ho spostato quel fottuto coltellino. Ma lei con l’altra mano mi ha preso la faccia e mi graffiava con le unghie.
L’ho lasciata andare e mi sono toccato il viso: sangue. Poi si è di nuovo avventata sul coltello. Si è accucciata. Đani le ha messo un piede sulla mano. Lei con gli occhi cercava aiuto.
Mi sono voltato. Ho guardato le altre.
Loro fissavano me. Si è trattato di un istante, lungo: erano tutt’attorno. Mi era chiaro che non erano dalla nostra parte.
Il cielo era grigio. Tutte quelle donne mi guardavano, intorno a noi salici e betulle.
Đani è riuscito a dare un calcio al coltellino.
È arrivato ai miei piedi. L’ho preso.
Mi sono spostato. Le gambe mi tremavano, a stento sono riuscito a mettermi di lato.
In quel momento finalmente sono arrivati di corsa gli infermieri. Le sono saltati addosso, l’hanno immobilizzata. E lei urlava, strillava.
Dopo mi sono messo a telefonare in giro e ho scovato il numero di quel parente di Tandar a Zagabria, e questi mi ha detto che Tandar faceva il muratore. Come fosse una cosa normale.
«Riferiscigli che lo abbiamo cercato e per di più siamo finiti nella merda» ho ribattuto al tipo.
E lui mi ha risposto: «Se volete venire a fare i muratori, non c’è nessun problema».
L’ho raccontato a Đani un po’ per ridere. Ma lui ha concluso: «Sai una cosa, penso che dovrei proprio darmi una regolata».
Ed è andato a lavorare con loro, giuro.