“Mi manca chiunque. Ricordo quando ero giovane e avvertivo una sensazione e la identificavo come nostalgia di casa, e poi pensavo che era proprio strano, visto che a casa ci vivevo.”
D.F. Wallace
Perdersi, in modo irrimediabile. Guidare, per andare a sbattere contro il muro della propria solitudine. Mangiare, seduto ad un tavolo apparecchiato solo per uno. Lavarsi i denti, di fronte ad uno specchio che restituisce l’ombra di ciò che sarebbe potuto essere. Leggere, per ritrovare la faccia simpatica di un attore famoso, che ti racconta la tua vita. Dormire, in compagnia di un vuoto a rendere insonnia. Toccarsi, e afferrare il sogno di un amore tra le braccia di un altro.
Ripetere sette giorni su sette, 365 giorni all’anno. Agitare prima dell’uso.
Dicono che per una donna innamorata, l’orologio del tempo muova le sue lancette al ritmo del battito del proprio amante. Che quelle lancette si fermino quando l’amore è lontano, come se si premesse il tasto pausa, per riprendere non appena si riavvicina. La lontananza la sospende, non solo da lui, ma da ogni altra cosa. La sua esistenza scorre sul riverbero di come sarà quando lo rivedrà.
Dentro al suo corpo si apre uno spazio, quello dell’assenza, che può sentire fisicamente, come se avesse all’interno un nuovo organo che pulsa. Vivere in funzione dell’altro, nella perenne, ma vana, attesa che questa volta torni per restare. Aggrapparsi a questo, come se fosse la cosa più importante che ha, come il ritornello di un disco graffiato che continua a ripetere la stessa nota dolente. Chi ha già sofferto un abbandono, specie da piccolo, continua a replicare questo dolore, che diventa poi l’unica unità di misura dell’esistenza. E’ un dolore che si rigira tra le mani, lo maneggia con cura ogni giorno, lo accudisce e lo culla come un bambino, non riesce a separarsene, perché questa è la sua unica sicurezza.
Quante volte ci siamo sentiti messi su di un piedistallo, per poi precipitare rovinosamente? Quante volte siamo rimasti intrappolati in quel gioco di specchi, dove l’unico riflesso non è il nostro? Quante volte ci siamo ritrovati a raccogliere le briciole di un amore a targhe alterne, dove si ama solo di venerdì, mentre negli altri giorni veniamo parcheggiati sullo scaffale delle seconde scelte? Quante volte abbiamo dovuto recitare la parte di un film, dove noi non eravamo mai gli attori protagonisti?
Nel Giovane Holden, Salinger sembrava aver trovato la ricetta giusta: non aprite, non svelate, tenete i segreti dentro il vostro cuore, o il cuore vi si aprirà al punto che nessuno più ne farà parte e tutti vi sfuggiranno, mancandovi.
Io non so se sia questa la soluzione, non so come si possa uscire da questo circolo vizioso.
Nel leggere il libro di Roberta Lepri, non ho potuto fare a meno di pensare a una parola: Firgun, che in Ebraico vuol dire gioia, la gioia semplice e disinteressata per una cosa bella capitata a qualcun altro. È il significato piccolo, e forse banale, che si nasconde dietro la parola amore, è quella piccola felicità che implode nel petto nel vedere che la persona amata sta bene. Il resto è qualcosa che ci ostiniamo a chiamiare amore, ma non è altro che un incedere zoppicante, fatto di assenze e mancanze a riempire un ego smisurato e fagocitante.
Un paio di giorni fa, qualcuno mi ha detto che sì, è vero, non si può guarire da ciò che ci manca, che tutt’al più ci si adatta e ci si racconta altre verità. Che della memoria possiamo farne un nocciolo di tenerezza, qualcosa che ci faccia sorridere in modo irrefrenabile. Quello che manca, e che non tornerà più, può essere un dolce ricordo.
Ripetere sette giorni su sette, 365 giorni all’anno. Agitare prima dell’uso.
Il grande merito del libro di Roberta Lepri, è esattamente questo, aver saputo raccontare una storia che parla a molti di noi, attraverso la memoria.
Uno strumento che può diventare obsoleto, come quegli oggetti vintage che si comprano ai mercatini, che può essere sottoposta ad una rimozione forzata, come un auto in divieto di sosta. Ma può anche essere un punto di ripartenza, il promontorio da cui poter osservare con le lenti della consapevolezza.
La Lepri sa modellare con cura la scrittura, come un giocoliere, si destreggia tra cambi di tono e prospettiva, in modo che ogni lettore vi si possa immedesimare.
Nel suo libro non ci sono buoni o cattivi, ma persone che si muovono circospette come animali feriti.
La sua è una grande riflessione sul rapporto con una persona narcisista, sui diversi segnali che possono aiutare a riconoscerla, su quanto, in questo tipo di relazioni tossiche, cerchiamo di riempire, fino all’orlo, lacune che vengono da molto lontano. Che si tratti di una madre assente o di un padre anaffettivo, a cui non riusciamo a perdonare gli egoismi, il nostro rimane un perpetuo annaspare per un amore che ci faccia sentire accettati.
Ripetere sette giorni su sette, 365 giorni all’anno. Agitare prima dell’uso.
Con buona pace di Liam Neeson.
Marco Latini