Roberto Bolaño morì. Aveva cinquant’anni. Per tutta la vita non era stato nessuno e questo gli fu di grande aiuto quando, cinque anni prima di sparire, dissero che era il più grande scrittore latinoamericano del secolo nuovo. Era poeta e aveva imparato ad esserlo nella sconfitta, nonostante la sconfitta, quella bruciante, quella senza nessun appello, quando le pagine vengono legate con lo spago e si accumulano sugli scaffali e sulla scrivania e a nessuno sembrano interessare. Per questo, quando gli dissero che era un genio, che le sue opere sarebbero state ricordate all’infinito, lui la prese con molta ironia. Era un uomo, ormai, vicino alla tomba, e l’infinito aveva tutt’altro significato.
Aveva due figli ancora piccoli: Lautaro e Alexandra. Sono la mia patria, disse, il resto sono strade e quartieri che ricordo appena e che dimenticherò, il che è la cosa migliore da fare con la patria, aggiunse, dimenticare.
Parlava da sradicato, come spesso è successo agli scrittori latinoamericani. Anni di persecuzioni, di regimi, li hanno dispersi nel mondo come Cuvivies. Bolaño nacque in Cile, si fece uomo in Messico e morì in Spagna. Provò a tornare, studente, convinto di poter sconfiggere Pinochet. Fu incarcerato prima di trovare un fucile, tradotto in cella per otto giorni in cui credette di morire. Un vecchio compagno delle superiori che non vedeva da quindici anni lo riconobbe. Un colpo di fortuna. Erano coetanei, ragazzo pure lui, il gendarme, con la divisa ma confuso come lo sono tutti i ragazzi che non sono dei perfetti idioti, e lo aiutò a uscire. Tornò in Messico e mai più a Santiago. Poi lasciò anche il D.F. e nemmeno lì fece ritorno. Se torno in Messico morirò, disse a tutti quelli che gli chiedevano di tornare, ed era possibile, non che lui morisse di colpo ma la sua letteratura, la sua visione del Messico che era più funzionale al suo lavoro. Tornare, avrebbe disarmato il D.F. della scintillante armatura del sogno.
In Italia, con la collaborazione di Ilide Carmignani che di Bolaño ha tradotto tutto, Adelphi ripubblica Notturno Cileno, con una copertina nuova, bellissima in cui coppie danzano abbracciati sotto un cielo di fantasmi. Sono dentro una casa il cui tetto si è sbriciolato, i ciottoli sono sul pavimento e all’orizzonte i lampi di una città, le luci che squarciano la nebbia, la polvere. Sono morti, mentre danzano, o sono vivi o sospesi, come ognuno di noi.
Leggere Bolaño significa aprire gli occhi verso qualcosa che è difficile da nominare, qualcosa di terribile che si nasconde dietro l’esperienza. Non sto dicendo che gli occhi si spalancano, per fortuna, ma si aprono un poco lasciando entrare accenni di quella fine che sempre cieca ci accompagna.
Notturno Cileno è un poema, perché Bolaño fu poeta prima di tutto. Allievo di Parra, fu prosaico, non lirico, per cui i suoi versi erano lunghi racconti e Notturno Cileno è una poesia di 123 pagine, come quelle di Derek Walcott, o come le biografie di eroica resistenza di Anne Weber.
Si tratta del monologo di un moribondo, il prete Sebastián Urrutia Lacroix che divenne critico letterario e poeta in un Cile turbolento che lui attraversò con condiscendenza. C’è un giovane con la faccia da vecchio che lui vede, che lo insulta, lo infamia e per difendersi Sebastián comincia un racconto che assomiglia ad una rosa mistica che apre i suoi petali verso un’altra rosa mistica e così via. Ci sono sei storie nel lungo sfogo di Sebastián. La casa di Farewell, il critico che lo aiutò all’inizio della sua carriera e dove incontrò Neruda; il pittore Guatemalteco che dipinse il Messico che appena appena ricordava; la collina degli eroi; i falchi cattolici; le lezioni di marxismo a Pinochet e la casa di Maria Canales.
Queste storie si fondono una dentro l’altra e sono tutte cariche di simbolismo e fatalità. Tutte raccontano il Cile in quello che sembra un processo il cui verdetto è un canto di malinconico perdono.
La casa di Maria Canales, al cui piano superiore si tenevano le feste, mentre nel seminterrato avvenivano le torture degli oppositori del regime è una metafora talmente atroce e potente che può spiegare ogni forma di totalitarismo. Eppure padre Sebastián riesce a trovare la forza per perdonare Maria Canales e sé stesso, per tutto quello che è successo, riconoscendo che la tempesta che li ha travolti è stata enorme e peggiori, assai peggiori, sono quelli che c’erano e hanno poi giurato e spergiurato di non esserci stati mai.
Pierangelo Consoli
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Roberto Bolaño, Notturno Cileno, Adelphi 2022, Pp. 123, Euro 12.