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Roberto Venturini anteprima. L’anno che a Roma fu due volte Natale

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Un sottile velo bianco ricopre il litorale romano di Torvaianica. La neve da queste parti è un evento straordinario. E suscita stupore e meraviglia perfino in quel villino ricoperto di polvere e abitato da scarafaggi e insetti, il regno appassito di Alfreda, una “sora Lella” che vive insieme al figlio Marco e va avanti per inerzia. Eppure laddove un bel po’ di tempo fa sbarcò Enea, il villaggio Tognazzi è un’isola felice. Il ritrovo estivo del jet set romano. La svolta risale agli anni Cinquanta, quando in quel tratto di spiaggia così vicina a Cinecittà Ugo Tognazzi organizzava il suo torneo di tennis. Un luogo che ha visto passare Luciano Salce, Mario Gherarducci del Corriere della Sera, Riccardo Gallone e perfino Sandra e Raimondo.

Sembra il set di Bianco, rosso e Verdone. E invece è l’ultimo romanzo di Roberto Venturini, già sceneggiatore della pluripremiata serie web che ha ispirato il fortunato esordio letterario di Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera (SEM, 2017), vincitore del Premio Bagutta Opera Prima, che torna oggi in libreria con  L’anno che a Roma fu due volte Natale edito da SEM 2021, di cui Satisfiction pubblica in anteprima un estratto. Quasi il remake di In viaggio con papà  ma stavolta in versione madre-figlio, legati da un affetto profondo e dall’ansia di sgomberare al più presto la casa, per evitare l’intervento drastico dell’Ufficio igiene e scongiurare il pericolo di sfratto.

Sullo sfondo, il mare che agita e calma. Quel mare che per una tragica fatalità un bel giorno, senza alcun preavviso, decide di inghiottire Mario, il marito di Alfreda e padre di Marco. E così tra l’andirivieni di quelle onde, si incrociano le vite di Vip e di “persone normali” dai tratti coloriti e grotteschi come Er Donna, Carlo, Ottavio e così via. Tutti intorno al bar di Vanda, d’estate ritrovo di attori e registi e d’inverno, quando Torvaianica tornava a svuotarsi, luogo d’incontro della folta comunità di trans. Lo stesso bar che alla fine degli anni Settanta vide passare terroristi di destra e brigatisti che si rifugiavano sul litorale e proprio da Vanda e Luigi finivano a bere un bicchiere di vino dei Castelli.

Storie di vita quotidiana, piccoli escamotage del tirare a campare, pillole di filosofia spicciola e una gran voglia di cambiare il proprio destino come meglio si può. I dialoghi sono intrisi di una romanità cinica e a tratti scomposta, unita a un lucido disincanto dominato da un provincialismo buono che però non può fare a meno di rivelare tutti i suoi limiti nella visione del mondo.  E, scivolando nell’ultimo atto,  sembra già di sentire Gabriella Ferri che canta, con intensa disperazione, passione e sofferenza. E che, tra le veraci note di Grazie alla vita, accompagna con l’anima e col cuore tutti verso un finale che qualcuno, nonostante tutto, da qualche parte aveva già scritto.

Elena Orlando  

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Quando Alfreda si rese conto che tutto lo zucchero dentro la tazzina del caffè si era sciolto da tempo a forza di mescolare, il nevischio iniziò a cadere sulla spiaggia del Villaggio Tognazzi.

Fingeva di non ricordarsene, eppure il telegiornale glielo aveva detto che probabilmente quel giorno avrebbe nevicato su tutta Roma, litorale compreso. E lei si era lasciata avviluppare in un pensiero che le aveva già fatto perdere un’intera serata: come avrebbe potuto attecchire la neve sulla spiaggia; se fosse possibile che un manto di fiocchi congelati pavimentasse l’arenile di fronte a casa fino al mare.

Quell’immagine le piaceva così tanto che l’agitò tutta.

Forse, si diceva, sarebbe potuta perfino uscire. Non senza una buona dose di fatica, vista la mole impressionante di oggetti che la ingabbiavano in quel villino-discarica. In fondo bastava spostare la pila più bassa di riviste davanti al divano, tanto si ricordava che i sacchi di vestiti del corridoio vicino alla porta non erano poi molti. Magari, mettendoli sopra i due televisori addossati alla parete di destra dell’andito e gettandosi alle spalle le buste di carta coi maglioni che impedivano il passaggio, un varco fino all’uscio l’avrebbe potuto conquistare. Certo, lì l’umidità aveva creato l’ambiente ideale per gli scarafaggi, e ad Alfreda quelle bestie facevano ribrezzo; avrebbe fatto di tutto per evitarli, ma tant’è. Era pronta a sopportare lo schifo per figurarsi dal vivo quell’immagine che le passava per la mente. Per quella circostanza eccezionale forse sarebbe riuscita, per una volta, a lottare contro la depressione e avrebbe indossato soltanto un disagio poco appariscente ma molto colorato. Sarebbe uscita e avrebbe passeggiato verso la battigia, stando ben attenta a non avvicinarsi all’acqua.

D’altra parte quel conato di vitalità se lo doveva. E poi la neve a Torvaianica non l’aveva mai vista. Anche se al mare lei ci viveva da un po’.

Qualche metro dopo il cortiletto del villino c’era la sabbia. Se lo ricordava, quando fino a qualche anno prima usciva all’alba in pigiama con la tazza di latte fumante a guardare il suo mare, carezzando la rena ancora non calpestata dai canari mattutini. E si ricordava anche quando la mattina presto il rombo di qualche aereo le uccideva sul nascere i pensieri. Alle spalle di casa sua c’era l’aeroporto di Pratica di Mare, ed era stato grazie a quella base militare che lei e suo marito erano riusciti a comprare, a un prezzo abbordabile, il villino dove ora viveva con il figlio. Nel momento esatto in cui avevano iniziato a intavolare la trattativa con l’agente immobiliare, un paio di quegli aerei militari si erano alzati in volo a così bassa quota che avevano tremato i vetri delle finestre; il prezzo della villa allora si era abbassato di molto.

Di cose ne erano successe in quella zona del litorale, però la neve al mare non l’aveva proprio mai vista. Iniziò a immaginarsi su quell’arenile imbiancato, bella come Patty Pravo in quel filmato Rai del ’74, quando d’inverno passeggia tra gli ombrelloni chiusi, fumando sulla spiaggia di Forte dei Marmi con un cappotto di lana bianca e dei jeans a zampa d’elefante, sulle note di Pazza idea.

Da giovane un po’ ci somigliava a Patty Pravo, anche se era mora. Alfreda se l’era mangiata, quella bella donna che era stata. Adesso era diventata un’obesa sciatta e diabetica a forza di abbuffate di dispiaceri. Esplosa, come aveva fatto quel villino nel Villaggio Tognazzi con i ricordi materiali di una famiglia che di fatto non esisteva più. Che poi in quella pattumiera non c’era quasi più niente che potesse avere importanza. Nulla che avesse un significato, magari l’aveva avuto in passato ma non era più lo stesso, e poi a causa del diabete neanche riusciva più a vederla bene, quella roba. In rari casi, nei momenti di lucidità, Alfreda riconosceva il suo problema, l’accumulazione compulsiva, ma solo per poche frazioni di secondo. Poi, quando la sensazione di disagio la invadeva, si grattava la fronte e preparava il caffè. Anche se la cucina era un disastro.

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