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Romance di una compagna e di un viaggio. Intervista a Emanuele Lanzetta

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Il distinguo tra poesia e una sequenza di parole che la scimmiottano può essere a volte lampante, altre discutibile. «Dove c’è la poesia, lì c’è un indovinello», scrisse Edoardo Sanguineti. Sfuggire agli stereotipi e al cosiddetto poetese, che tanto irritava il poeta della neoavanguardia, tuttavia non è semplice. Stabilire cosa sia la poesia è una di quelle imprese infinite che implica una ricerca tutta personale, come poeta e come lettore. Per Giorgio Caproni, la poesia è stata «la ricerca di sé, della sua identità e, attraverso la comprensione di sé, la conoscenza dell’altro» e il poeta, sempre secondo l’autore, è assimilabile a «un minatore che attraverso la superficie (l’autobiografia), scava, scava e scava fino a trovare un fondo nel proprio io, comune a tutti gli uomini». È proprio la ricerca di sé che caratterizza i versi dell’esordiente Emanuele Lanzetta, autore della raccolta di poesie “Miele di mare. Romance di una compagna e di un viaggio”, edita da Officina Trinacria, nella collana “I giorni del Parnaso”. Lanzetta, classe 1974, esordisce come autore di poesia, ma non è nuovo all’esplorazione della parola.
Docente di Lettere classiche in un liceo di Palermo, ha insegnato Linguistica testuale, dal 2005 al 2009, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo palermitano e ha pubblicato articoli di Linguistica diacronica su miscellanee, edite da Mouto-De Gruyter, e su varie riviste nazionali e internazionali (Aion, Rilde, Mythos, Ijdlr).
Miele di mare è la storia di un lungo viaggio, dal 1996 al 2013, un esercizio della memoria, a cui l’autore si abbandona senza resistenze perché «alla memoria non si può che soggiacere/ e allora si abusa della penombra». Al centro, il ritratto della donna amata «Lei è miele di cavità di tronchi», alla quale il poeta si rivolge in una contemplazione quasi religiosa: «La tua bellezza/ al mondo/ è inusitata:/ (…)/ non s’annuncia con vacui clamori:/ silente/ induce a trepidare/ come paesaggio da un’alta/ cima in cui l’occhio si perde». Una contemplazione che non è mai il preludio alla soddisfazione dei sensi e che resta estasi lirica: «Il colore di questi occhi, bambina mia/ (…)/ è una primavera infinita/ e non posso che cercarli/ come il segno dell’eternità/ a cui non appartengo/ di cui, tuttavia, coltivo la radice/ perché non smetta tu di guardarmi».
Tra dialogo ed evasione, Lanzetta guizza di verso in verso in un gioco di richiami tra uomo e poeta che continuamente si alterna fino a stabilire, nelle ultime pagine, una riconciliazione. In alcuni tratti, sembra che l’autore racconti a voce la storia a se stesso, scardinando il verso, in una sintassi libera. Libera ma pur sempre accudita. Non un susseguirsi di versi confusi, informi o disordinati. Tutt’altro. Dappertutto regna l’ordine. Pagina dopo pagina, i paesaggi diventano più nitidi, così come il viso della compagna, presenza costante in tutta la raccolta: «Ora ti vedo/ (…)/ seguendo le linee del volto/ ti percorro a mani nude». Ridisegna i contorni della figura per fermarla e guardarla finalmente con occhi nuovi, senza la luce morbida da cui è stata accarezzata fino a quel momento. Il poeta giunge a un chiaro sguardo di ciò che è stato, senza illusione. Il vissuto diventa così contemplazione della distanza e la crisi e la speranza si tramutano in consapevolezza della fine. Al centro dell’opera non c’è, infatti, l’accadere, ma l’esperienza, coscienza di sé nel divenire, e il rimpianto, nota che attraversa tutta la raccolta. È un poetare dichiarato, quasi ostentato, quello di Lanzetta, che tuttavia sfugge a ogni rigida classificazione estetica e che si identifica con l’ispirazione tout court. Si avverte ora l’eco del filone trovadorico, ora quello epico-romantico. C’è il tentativo di rimasticare la lezione classica, prediligendo termini della tradizione (nari, rimembranze, strigile, flutto, fole, singulti, spola verace) e ricorrendo a verbi talvolta sofisticati (sciamare, illanguidire, cincischiare, soggiacere, rimestare). Una ricerca incalzante e coraggiosa che non teme di compromettere la fluidità del verso e che seduce il lettore per la bellezza e la riscoperta di parole ormai desuete.
Usare la prosa per parlare di poesia è, come afferma Giuseppe Savagnone nella prefazione alla silloge, un’avventura destinata in partenza al fallimento. La poesia, più che spiegata, va letta e attraversata. Quella di Lanzetta è una delle voci che si è appena affacciata nel panorama editoriale. Quanto e se si distinguerà dalla moltitudine di verseggiatori sarà il tempo a stabilirlo e se, come ha affermato Giovanni Giudici, «L’impoetico nutre la poesia molto più del poetico», chissà se l’autore, con la sua prossima raccolta, continuerà a scandagliare la parola, appoggiandosi alla tradizione o prendendone le distanze e forgiando una lingua di cui sarà secondario stabilire se poetica o impoetica. Come scrive Lanzetta, in uno dei componimenti che accompagna il lettore alla fine del viaggio, «domande inevase/ passi precocemente interrotti/ perché lunghi amori hanno fine/ senza clamori/ antichi amori/ restano graffiti tra un bacio e una scelta».

L’idea di un romanzo in versi è stata intenzionale o casuale?

L’idea del romanzo in versi è nata insieme alla raccolta. Ho ritenuto che fosse la forma migliore per raccontare il senso di un viaggio nel tempo, nello spazio, ma soprattutto nella memoria.

Credi ci sia spazio nel mondo editoriale di oggi per i romanzi in versi?

Credo ci sia bisogno in generale di forme più profonde di comunicazione, la poesia senza dubbio è una di queste. L’editoria dovrebbe favorirne maggiormente la diffusione e sarebbe bello pensare a un’educazione letteraria che rivaluti la funzione formativa della poesia.

Sei anche un insegnante: quanto spazio è dato alla poesia nella scuola? Nelle antologie quanto è presente?

Lo spazio riservato alla poesia a scuola è limitato. Non mancano gli spazi antologici, ma sono pochi quelli che non abbiano un fine strettamente didattico. Tuttavia, ho potuto sperimentare il piacere dei ragazzi nel discutere di poesie condividendo con loro le mie e ascoltando le loro impressioni sulla mia scrittura e sull’arte poetica in genere.

Le poesie non hanno titolo, tranne quelle della sezione Canzoni di fuochi e di rimembranza. Come mai?

L’assenza di un titolo è dovuta all’idea di rendere maggiormente la continuità della narrazione, dando in questo modo maggiore risalto alla sezione nella sua interezza, piuttosto che ai singoli componimenti. Nella sezione di cui parli, il titolo era fondamentale per rendere evidente il legame con le canzoni di Fabrizio De Andrè. I titoli dei componimenti, infatti, corrispondono ai titoli delle canzoni. Rappresentano, in un certo senso, la colonna sonora del romanzo in versi.

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