Il Romanzetto estivo di Gherardo Bortolotti edito da Tic nell’aprile del 2021 è l’undicesimo volume della seconda serie della collana ChapBooks diretta da Michele Zaffarano, con la copertina realizzata da Enrico Pantani, ed è un libro che dà forma plastica a concetti come dissipazione, desiderio, mancanza. Il romanzetto nasce in un particolare momento della vita dell’autore. La morte del padre e la separazione dalla compagna. Ma è anche quello dell’incontro del suo primo amore dopo venticinque anni. In esergo un estratto da Ricordo, una lirica del poeta Hölderlin. Le paginette sono un ponte che collega il presente dell’autore al suo passato e all’avvenire. La linea temporale è quantistica e lo stesso romanzo non segue una struttura classica e non è solo narrativo, ma galleggia nel limine tra racconto, poesia e sperimentazione, lavorio con la materia letteraria e biografica per formarla in una pratica infraquotidiana e straniante. Il primo capitoletto è il numero 47 e l’ultimo è il 93. I temi cari all’autore tornano nei riferimenti musicali e la scrittura esce dalla pagina con il code QR della playlist di cui si parla in un capitolo del romanzetto stesso. Metatesto, metafisico. La voce narrante è quella di un soggetto che racconta l’io restando fuori da ogni egocentrismo. Racconta mostrandone i tratti da corpo astrale, come se a dire è un morto o un appena risorto. I gesti e le gesta leggendarie di un io epico, quotidiano, intenso. È evidente che in questa elaborazione del lutto l’autore segua la terza via, quella di Perniola, per cui il dolore non viene esibito e nemmeno proiettato nella rabbia contromondana, ma racchiuso in una sorta di cripta. La cripta della scrittura. Il dolore si porta a modellare visioni e percezioni, in consapevolezze geometriche. Il criptico, in questa scrittura amorosa, spesso si dissipa in frammenti. Una dissipazione che riporta il pensiero e il sentire a quella Cosa innominabile e mortifera di lacaniana memoria. C’è forse Bataille accanto a Bowie, come i Joy Division accanto a Rilke. Il mondo del Romanzetto estivo è di una trascendenza struggente e di palpabile materialità, di mondanità bellezza e di sguardi che vanno oltre il qui e oltrepassano il cosmo verso vite precedenti e successive, gli oggetti sono sempre ciarlieri, e le stelle affondano negli occhi la puerile e salvifica estensione del futuro. C’è la morte e c’è l’amore. E l’entropia è destino comune al libro, al foglio, al lettore, alla leggenda che raccoglie i gesti e gli atti. È l’amore che muove e muore il mondo. È il desiderio che fa parola scritta l’ologramma che ci vede agiti dall’estensione del ricordo. Dalla persistente risacca del cuore.
Gianluca Garrapa
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«Perché per definizione propria è la leggenda la versione corretta, quella in cui non sono costretto a riconoscere i limiti dei giorni, la necessità del salario, le fattispecie della morte.» Per quanto riguarda la scrittura, che tipo di necessità ti ha spinto a scrivere il Romanzetto estivo?
Il Romanzetto è un ulteriore passo nella mia esplorazione del cosiddetto infraordinario. Il tema per me è da sempre la ricostruzione di quei livelli della nostra vita e della nostra giornata che non processiamo direttamente, che diamo per scontati ma che, materialmente, ci costituiscono e decidono di noi, in cui accumuliamo dolore, paure, sollievi, figurazioni del passato, del futuro, di noi stessi. All’inizio di questo percorso leggevo in filigrana soprattutto le strutture socio-economiche e le cristallizzazioni nevrotiche, a scavalco tra la cogenza del capitale e quella del super-io. Mi sono reso conto a un certo punto, però, che se c’è un fondamento delle nostre giornate questo è fatto di “sentimentale”, di una materia emotivo-semantica già orientata, calda di una predisposizione, di un sentimento appunto. Questo passaggio, per come lo vedo io, è già avvenuto con Le storie del pavimento. Il Romanzetto ne è una specie di prova compiuta: indagare la dimensione dell’amore, del desiderio, dell’attrazione, oltre a rispondere alla solita occasione biografica, era la migliore delle prove. E così facendo mi sono reso conto di quanto sia labile la nostra impalcatura di reale e di vero, di quanto, a conti fatti, siamo governati da quello che definisco la leggenda, che è una specie di driver basico, essenzialmente costituito da desiderio e narrazione. Tra il vero e il falso scelgo sempre la leggenda, dico a un certo punto, ed è forse la conclusione più vera a cui sono arrivato attraverso la scrittura.
«La città, come al solito, si occupa di fornirmi scenari e coincidenze in numero sufficiente per l’ennesimo episodio della mia leggenda.» I capitoli sono intitolati con un numero: il primo è il 47 e l’ultimo è il 93: è un caso o ha qualche significato particolare?
La mia idea di letteratura è che sia un’operazione di ordinamento. La letteratura è una funzione d’ordine. Per ordine, però, non intendo un sistema normativo e gerarchico ma proprio la realizzazione e/o l’evocazione di una sequenza, eventualmente arbitraria. Anzi, essenzialmente arbitraria con riferimento al libero arbitrio. In questo senso, oltre a scomporre la mia scrittura in porzioni più o meno brevi, da montare nel testo risultante secondo un’operazione di installazione di un ordine/senso, ho sempre avuto quello che potremmo definire un vezzo, cioè l’utilizzo di sistemi di numerazione come elemento strutturale dei miei testi. Le soluzioni che ho adottato sono state diverse. In questo caso ho scelto una sequenza numerica di 47 prose partendo dal numero 47, dato che la vicenda del testo si svolge nel 47esimo anno della mia vita. Nella numerazione di queste sequenze c’è un numero centrale, il 70, di cui è protagonista Bauci, una delle donne del Romanzetto. Il suo nome, come quello delle altre donne, è preso dalle Città calviniane e, anche in quel testo, Bauci, la città dell’assenza, occupa il posto centrale dell’intera architettura.
«sto creando una playlist con Disorder, Just Like Heaven, Atomic, Hiroshima Mon Amour e tutte le altre canzoni adatte a intitolarla per sempre Sad Romantic Inevitable.» La playlist finale permette conduce il gesto di chi legge a uscire dalla pagina verso il suono: che relazione hai con la musica e con la musicalità?
La risposta più immediata (e più sincera) è che la musica è la colonna sonora della leggenda che mi racconto. Sto parlando essenzialmente della cosiddetta musica pop (oppure, con quell’espressione imbarazzante per quanto è arretrata, la cosiddetta musica leggera). Per altre tradizioni (la musica da spartito, il jazz, la musica popolare vera e propria, etc.) il discorso sarebbe diverso. Nel caso della musica pop invece l’operazione estetica non è solo nella dimensione musicale né in quella testuale ma è direttamente sullo stile di vita e sull’autonarrazione che l’ascoltatore può generare a partire dalla partecipazione (ancor prima che dall’ascolto). Per altro non sono un ascoltatore serio, per così dire, uno di quegli ascoltatori che approfondisce la produzione degli autori, delle band, dei produttori, delle etichette. Sono un ascoltatore seriale di canzoni. Mi capita il più delle volte di mettere in loop una singola canzone (True Faith dei New Order, per esempio) e ascoltarla consecutivamente per una o due ore, anche di più. Ora, anche in questo caso la dimensione del sentimentale è fondamentale: si tratta di esplorare o abitare una gestalt di musica, parole, gesti e umori attraverso la riproduzione del singolo brano, con le memorie degli ascolti precedenti, le occasioni di quegli ascolti, dell’iconografia della band o del cantante, la loro eventuale storia e anche leggenda.
«Sotto quelle geometrie mi tocca attraversare il futuro, scontare i giorni, il desiderio, i film di Rohmer, e i responsi a cui mi affido li decidono quelle costellazioni.» Che ruolo ha il desiderio nella tua scrittura?
Il tema del desiderio è emerso nel corso della scrittura del Romanzetto, dato che veniva tematizzato insieme all’amore, all’attrazione e così via. Emergendo, tuttavia, mi si è presentato in modo compiuto ed evidente come un elemento fondamentale della mia scrittura. Non tanto come tema, appunto, ma come vera e propria radice. Ho dovuto registrare, cioè, che la realizzazione di un testo è una formulazione del desiderio, eventualmente con la D maiuscola. Non un suo esaudimento, evidentemente, ma una sua istanza concreta, nella misura in cui ne è una sua limitazione. Ho registrato allo stesso modo che il desiderio si dispiega sempre e solo nell’immaginario e che come tale non può avere soddisfacimento, non può compiersi. Ogni soggetto od oggetto che ci coinvolge negli intrecci del desiderio non può esaudirci perché, come noi, è “solo” reale. La nostra realtà è il limite alla nostra capacità di estinguere il desiderio. Allo stesso modo la realtà della scrittura, o almeno della mia scrittura, segna il limite della mia capacità di esprimere il desiderio che mi abita, che riguarda l’altra realtà, tutto ciò che rimane fuori, e che non può compiersi, ricadendo nei confini che io stesso ho tracciato scrivendo. Mi sono accorto, in altri termini, che il tono implicitamente lirico della mia prosa, spesso molto sorvegliata, molto fredda, eventualmente anche disincarnata, era dovuto alla vibrazione continua, per così dire, di quel desiderio impredicabile che però è a volte sufficientemente cogente per spingermi a scrivere.
«[…] e, finalmente, liberare il desiderio che avevo allevato, nei pomeriggi e nelle lunghe serate estive, di farla mia, pur con i mezzi da poeta minore di cui potevo disporre nella confusione del mio apprendistato.» Perché in esergo hai scelto proprio i frammenti dal Ricordo di Friedrich Hölderlin, che rapporto hai con la scrittura lirica?
Quel frammento di Hölderlin è un brano su cui medito da più di vent’anni. L’ho letto nel pieno del mio apprendistato e ci sono tornato più e più volte nel corso delle varie vicende della mia scrittura. A suo tempo, quando avevo tentato qualche sperimentazione con i video nel corso degli anni 2000, avevo anche fatto un’animazione con alcune delle parole del frammento lette da un programma text-to-speech. Il motivo per cui ci torno, ovviamente, è che mi sembra estremamente significativo: riesce a formulare una dimensione etica propria dell’umano, legata alla sua capacità di produrre un senso immaginario, effimero ma che lo supera, in un modo leggendario certo ma grazie al quale, nei suoi “pensieri di mortale”, nella rammemorazione dei suoi “giorni dell’amore”, nei suoi limiti, nella sua estrema miseria, può trovare uno spazio compiuto e “buono”. La figura di Hölderlin, per altro, è tra quelle più coinvolgenti, per quanto mi riguarda, analoga a quella di Walser o di Kafka: fallimenti compiuti e coerenti, delle avanguardie oltre i confini dell’età adulta, senza regressioni ma coraggiosamente fedeli alla verità dei propri limiti. In merito alla lirica posso dire che sono uno scarso lettore di lirica, sia per questioni di gusto che di formazione, ma anche che nel Romanzetto ho citato più o meno esplicitamente diversi autori di poesia lirica. Hölderlin, ovviamente, ma anche Sereni, Donne, Rilke, Dickinson (e il Cantico dei cantici). Di tutti questi autori sicuramente quello più significativo, per me, è stato Rilke: la lettura dei Sonetti e delle Elegie hanno composto una della tappe più importanti del mio apprendistato, per quanto poi la mia ricerca letteraria se ne sia allontanata, almeno apparentemente, in modo decisissimo. Quello che Rilke dice in uno dei Sonetti, cioè “Osate dirlo quel che chiamate mela”, come anche il suo uso delle metafore (che credo si possa definire magistrale sia nei Sonetti che nelle Elegie), al netto del presupposto appunto lirico sulla capacità di dire “veramente” dello scrittore, che non condivido, mi sono sempre sembrati porre una questione imprescindibile e cioè la natura etica ed epistemologica del gesto di scrivere, quella filigrana intimamente cognitiva e politica che sostiene ogni scrittura.
C’è stato un cambiamento dopo questo romanzo nella tua scrittura e nella tua esistenza?
Per quel che mi riguarda, la questione che si presenta ogni volta che finisco un libro è il rischio concreto che quello terminato sia l’ultimo possibile. In questo senso, questo come ogni altro mio libro ha cambiato la mia scrittura e la mia esistenza nella misura in cui mi ha portato di un tratto (forse quello definitivo) più vicino al limite della mia capacità di proseguire la vicenda della scrittura e, in un certo senso, della mia esistenza. La scrittura, come la realtà, è un’operazione a perdere. Chiudere un testo vuol dire confrontarsi nuovamente con quello spreco, quell’approssimazione, quel disordine e, ogni volta, sembra sempre più difficile immaginare un rilancio o una prosecuzione.