Io non la conosco, non so niente di lei,
non so chi siano i suoi referenti letterari.
Così a fiuto mi vengono in mente tre nomi,
Céline, Beckett e Thomas Bernhard,
inclini a una visione della vita così disperata
da sconfinare nella più grandiosa comicità.
Carlo Fruttero
.
Rosa Matteucci è nata a Orvieto nel 1960 ma vive da diversi anni a Genova.
Artista poliedrica, ha fatto teatro e cinema. Della sua recente attività nel campo dell’arte contemporanea parleremo con lei a fine articolo.
L’autrice orvietana possiede qualità davvero particolari, uniche nel panorama letterario italiano: irriverente e dissacrante, caustica e (auto)ironica, insolente e drastica, non ama le mezze misure né si ferma nel momento in cui il “politicamente corretto” (forma che trovo deprecabile in parecchi campi) suggerirebbe.
Scava a fondo nelle situazioni, scopre implacabilmente i suoi personaggi che, macchiette popolari o aristocratici decaduti che siano, mettono in scena i propri sentimenti più nascosti, anche quelli che ognuno di noi si vergognerebbe di confessare.
Personaggi veri e vividi, che sembrano interagire con il lettore per quanto calati in una realtà credibile: la cura dei dettagli è una delle qualità della Matteucci, e per questa ragione gli affreschi di vita che ci racconta rimangono in mente indelebilmente.
La scrittrice umbra non offre mai, nella narrazione, un punto di vista “comune”: giovani o vecchi che siano, i suoi protagonisti osservano le cose da una prospettiva diversa, aprendo sfondi da una visuale che arricchisce le storie di particolari che regalano alle scene una compiutezza naturale.
Oltre all’originalità, la prerogativa centrale della Matteucci è senz’altro lo stile che è sempre in sintonia con la vicenda narrata: l’autrice si stacca da tutti gli stilemi della narrativa italiana contemporanea. Mai essenziale né barocco, mai in cerca di soluzioni ad effetto, lo stile della scrittrice risulta elegante e raffinato, aulico nell’accezione più nobile del termine e mai stucchevole: un esempio di come la propria cultura possa essere messa al servizio del lettore. Le citazioni cinematografiche e letterarie si susseguono senza soluzione di continuità, mai pedanti o saccenti.
La ricerca di equilibrio è un ulteriore aspetto della narrativa della scrittrice umbra: nonostante il successo decretato da critica e pubblico al suo romanzo di esordio, Lourdes, anche un lettore meno attento potrà notare l’evoluzione della sua scrittura nel corso del tempo.
Gradualmente ma progressivamente le parole diventano sempre più pertinenti, l’essenzialità (che in questo caso è tutto fuorché minimalismo) una vera e propria cifra stilistica, la caratterizzazione dei personaggi un esercizio sempre più preciso, le ambientazioni un tocco da pittore, a volte realista altre surrealista.
Bibliografia di Rosa Matteucci
Lourdes, Adelphi, 1998;
Libera la Karenina che è in te, Adelphi, 2003;
Cuore di mamma, Adelphi, 2006 – Premio Grinzane Cavour;
India per signorine, Rizzoli, 2008;
Tutta mio padre, Bompiani, 2010 – Premio Brancati e finalista Premio Strega;
Le donne perdonano tutto tranne il silenzio, Giunti, 2012;
Le opere
Rosa Matteucci esordisce con il romanzo Lourdes nel 1998.
Ci troviamo di fronte, senza dubbio, a un romanzo dirompente: disperato ed esagerato, visionario e tragicomico, il punto di vista della narrazione appartiene a Maria Aguelema che, dopo la morte del padre in un incidente stradale, decide di fare un pellegrinaggio a Lourdes per chiedere conto a Dio della tragedia che le è capitata. Lo fa come dama di carità in servizio presso uno dei tanti treni bianchi che portano migliaia di pellegrini a Lourdes ogni anno. Nobile decaduta che ha seguito la parabola discendente della ricca famiglia ex proprietaria terriera, l’Aguelema non è certo una donna con troppe virtù: decisamente poco attraente, neanche troppo intelligente, goffa e assolutamente poco sveglia, la donna si muove con difficoltà e imbarazzo nei meandri di esemplari di un’umanità che rispecchia fedelmente i prototipi dei pellegrini in viaggio.
Malati veri e malati immaginari, barellieri e volontari, baristi e ristoratori, guidatori di pullman e capo vagoni, anziani timorati di Dio e anziani che prendono il pellegrinaggio come gita di piacere si susseguono in situazioni surreali e paradossali tra battute di comicità popolare. Gli episodi raccontati, che spesso strappano più di una risata, non possono non scatenare in chi legge quella triste allegria che fa da sfondo a una drammaticità che solo la leggerezza può rendere sopportabile: il tutto legato da uno stile incisivo e serrato che rende la lettura dinamica e avvolgente, piacevole e coinvolgente.
A un certo punto Aguelema pensa di aver trovato quell’amore che le è sempre mancato, ma da qui avranno inizio tutta una serie di illusioni e malintesi che fanno parte, oltre che della vita quotidiana, della particolarità stilistica della scrittrice.
Lourdes è un romanzo che affronta anche uno dei più grandi e misteriosi temi della vita, quello della fede: nonostante il romanzo rappresenti anche il suo percorso di conversione, la scrittrice orvietana non lo percorre mai con arroganza e presunzione, ma mantiene sempre la giusta distanza per non risultare troppo invadente.
In Libera la Karenina che è in te, pubblicato nel 2013, l’autrice esaspera meno i toni, estremizza meno lo stile e ci racconta la storia di una donna, separata da tre anni, che decide di andare a fare visita a un amico che ha trovato un impiego come insegnante all’Asmara. Nonostante le diverse affinità che li legano, tra di loro non è mai scoccata la scintilla dell’amore. Appena arrivata a destinazione, la donna rimane folgorata da un soldato del contingente italiano di pace stanziato in Eritrea: convinta di avere trovato l’amore della propria vita, la donna soffre tragiche pene d’amore e si sottopone alle umiliazioni del soldato che, dopo averle confessato il suo presunto amore, sembra prenderne le distanze.
Il viaggio dei protagonisti non si limita alla capitale dello stato africano ma si spinge fino a Barentù, verso l’ovest del paese più vicino al Sudan, dove feste tribali, paesaggi desertici e minacciosi, riti scaramantici e malefici della società indigena danno una visione inquietante di una cultura così lontana dalla nostra.
Anche in questa occasione la Matteucci, senza apparenti difficoltà, fa sfoggio di uno stile unico e inconfondibile, dileggiante e sarcastico: le citazioni cinematografiche e letterarie si susseguono in un crescendo ironico che arriva al punto più alto quando la protagonista si trova davanti a un binario ferroviario abbandonato per tentare un improbabile suicidio. Il riferimento del titolo ad Anna Karenina non è certamente casuale.
Cuore di mamma, pubblicato sempre da Adelphi nel 2006, ha come protagonista Luce, una donna poco più che quarantenne, alle prese con una madre anziana e vedova, poco autonoma che rifugge l’idea di assumere una badante. Ogni settimana la figlia, dirigente di banca in una grande città, torna nel piccolo paese per accudirla. Gli screzi tra le due donne sono frequenti: la figlia rimprovera alla madre di non farle avere una vita indipendente per il suo rifiuto di prendere un aiuto, la madre rinfaccia alla figlia la scarsa presenza. Luce è stata sposata, un matrimonio senza pretese con cui voleva sfuggire alle “attenzioni” materne, ma il marito l’ha lasciata per una partner più giovane con cui ha avuto quei figli che non aveva voluto con lei.
Alla vigilia delle feste di Natale, Luce incontra Gianluca, figlio di vicini della madre: non può rimanere insensibile all’interesse dell’uomo e non può non illudersi di rifarsi una vita con l’uomo. Da qui parte una commedia dei malintesi che la Matteucci porta avanti con assoluta maestria: amarezza e disincanto, ironico e grottesco si mescolano continuamente, i protagonisti sono calibrati con precisione e abilità, le situazioni misurate con un realismo che vira verso il cinismo. Con uno stile che, come al solito, non tentenna mai. E la scena finale, un pranzo di Natale al centro anziani, non è nient’altro che l’apoteosi di un romanzo che esasperando i toni ci dà un quadro preciso delle nostre misere esistenze.
Chi si aspettava una guida turistica è rimasto deluso da India per signorine. Leggendo qualche commento su aNobii (http://www.anobii.com/) ho notato che alcune lettrici si sono lamentate per il linguaggio e per la forma del testo. Temo che queste persone non conoscessero la Matteucci letterata perché da un’autrice originale e al di fuori degli schemi non ci si poteva aspettare niente di diverso. Resoconto di un suo viaggio in India, l’autrice orvietana ci rende partecipi delle sue tre tappe: la regione del Kerala dove vive Amma, una famosa mistica, Tiruvannamalai, dove si trova risucchiata dalla processione in onore di Shiva e infine Mamallapuran, una stazione termale.
Il suo punto di vista è al solito irriverente e cozza contro i luoghi comuni spirituali con cui spesso si identifica l’India. Spiritualità che la scrittrice non denigra, sia chiaro, ma della quale ci offre anche i lati paradossali e meno edificanti.
Il 2010 è l’anno di Tutta mio padre.
Il romanzo è la storia della parabola della famiglia di Rosa Matteucci, un tempo agiata, che si ritrova, d’un tratto, a perdere tutto.
Una storia non felice, il cui punto centrale è il padre dell’autrice: spiritista, seguace di
discipline orientali, faccendiere, corteggiatore di donne e giocatore d’azzardo, l’uomo diventa il punto di riferimento sia della Rosa bambina che della Rosa scrittrice che lo seguiranno passo dopo passo.
Non poteva essere altrimenti, visto il distacco della madre severa e la mancanza di carattere della bella sorella.
Gli altri personaggi, dai nonni ai contadini, dalle zie ai conti, dalle serve ai paesani non sono altro che rappresentanti di una società che di fatto ci porta dentro la storia italiana.
Pagine raffinate ed eleganti, ironiche e taglienti, sagaci e drammatiche in cui l’autrice non si risparmia e non risparmia nessuno in un viaggio a ritroso dentro una decadenza che più di quella di una famiglia è il fallimento di una società intera.
Una storia classica raccontata senza indulgenze e con un’(auto)ironia sempre pungente che rende lievi anche gli accadimenti più tragici. Un testo autobiografico che la Matteucci affronta con un distacco letterario che le permette di evitare quei sentimentalismi sempre in agguato in casi come questi.
Una nuova prova, se ce ne fosse stato bisogno, dell’estrema professionalità della scrittrice orvietana.
Le donne perdonano tutto tranne il silenzio, edito da Giunti nel 2012, è l’ultimo romanzo pubblicato dalla Matteucci.
È la storia di due donne, Marta, un’attrice trentenne, e Maria, cinquant’anni, giornalista free lance: s’incrociano sul set di un film sul calvario di Gesù che non si girerà mai.
Anche le loro vite sentimentali assomigliano a una Via Crucis: i “loro” uomini sono indifferenti e aridi sentimentalmente, prototipi di maschi cinici e silenziosi.
Tra di loro cercheranno i motivi delle proprie sofferenze e per far questo metteranno da parte qualsiasi pregiudizio verso l’altra.
Il confronto tra le protagoniste servirà loro per trovare i motivi della loro sofferenza ma non le soluzioni: l’analisi delle due donne, diverse per età e mentalità, è uno sguardo unico e ampio, disincantato e crudele su un sentimento che è redenzione ma che comporta spesso pene che sembrano essere senza fine.
E se Marta, dopo due anni e mezzo, si rende conto che l’amante non è altro che un ometto di mezza età con tutti i difetti del caso, Maria non può che arrivare a un finale non compiuto, dove una volta ancora lo stile e l’ironia amara della scrittrice, insieme alla sua visionarietà, prendono il sopravvento.
Le figure delle donne sono tracciate con crudo realismo che a volte potrebbe sfociare in cinismo se Rosa Matteucci non le accompagnasse con quell’indulgenza che è tipica del suo modo di scrivere.
Tutto quadra in questo romanzo, come in un lavoro di estrema precisione: la storia, lo stile, le parole, i personaggi e l’ambientazione non fanno altro che ribadire, per chi ne avesse avuto ancora bisogno, le grandi qualità di Rosa Matteucci.
Una grande scrittrice italiana.
Rosa, ci parli brevemente del tuo incontro con l’arte contemporanea?
L’incontro con Stefania Galegati, l’artista di arti visive con cui collaboro, è avvenuto nel 2010. Lei aveva in mente un progetto e mi chiese un testo per creare un percorso nel centro storico di Genova. Ne è nato un evento che in concreto ha creato la gente: dello scritto di Odessa, in città, se ne parla ancora oggi. Le persone erano sorprese nel vedere le parole scritte sulle vie del centro, si chiedevano cosa potesse essere, se il primo capitolo di un romanzo o magari un racconto, e seguivano curiosi i diversi percorsi. Sono rimasta sorpresa dalla partecipazione e dal coinvolgimento del pubblico, maggiore di quello di un lettore tradizionale. C’è uno scambio di opinioni immediato che un’attività solitaria come la lettura non consente.
Cosa ti ha dato di diverso dallo scrivere questa esperienza?
Non avrei mai pensato di accomunarmi con uno scultore o un incisore. Non accetterei mai di lavorare a un testo con un altro scrittore, non credo che il risultato sarebbe interessante, ma la collaborazione con artisti che operano in campi artistici diversi mi ha fatto fare una scoperta di grande bellezza: c’è un’urgenza comune, negli artisti, di creare per esprimere qualcosa, ognuno con le forme a lui congeniali.
I link da consultare per visitare le installazioni sono:
http://www.domusweb.it/it/arte/2012/06/19/stefania-galegati-shines.html
http://www.dols.it/wp-content/uploads/2013/11/Parole-Rosa.pdf
http://www.galegati.net/sito/immagini/scrittamilano.html