Talvolta si adescava in un sorriso. Non è che fosse raro, ma quando capitava era al venerdì. Una di quelle frasi che, guadagnando la conseguenza dell’innesco, sbilancia i motivi di una intenzione involontaria. E se capitava, tutto conciliava sul treno. Come le sue consuete Church’s stringate ai piedi. Di ritorno, verso casa. Per quella circostanza, assicurava un varco ai ricordi: i soli a cui concedeva uno slancio ed un riparo. Come con le barche alla bitta, preferiva alle incaute derive, quel moto ondoso, tra segnalatore e pennello, e godersi, quindi, la mediocrità degli avvenimenti. Sulla tratta sentiva di essere al sicuro; soprattutto, gli allarmi temporaleschi non gli procuravano alcuna malizia. Ai ricordi, per quel conversare timido, offriva il cibo più misurato.
Dalla piccola stazione, dal quel suo avvitarsi modesto, il treno ripartì con il solito minuto di ritardo. Su quella tratta erano condensati i suoi oneri, incluse le assenze. A/R: più per eludere che per la resa di un effetto. La circostanza del viaggio appagava il pretesto, ma non richiamava, in lui, alcuno fra quei sovvertimenti incendiari tanto cari a chi sa l’intimità del viaggio. Solitamente, il viaggiatore sa fra quali obblighi manovrare e, determinandosi nel senso variabile della meta, sa che è l’”attualità” a favorire la più inaspettata fra le circostanze. Sul suo treno poco o nulla di appagante. Osservava, invece, la tenacia con cui gli involontari compagni di viaggio evitavano anche il più inoffensivo tra i “contagi”. Le emozioni, soprattutto. Trovava oltremodo bizzarri “l’uomo con auricolare” o “la donna con telefono mobile”; in quelli, gli diceva l’esperienza, coglieva le variabili che avrebbero esaltato gli uomini nel futuro disastro morale del mondo. L’avidità in quelle facce replicava il congegno del terrore. “Nel mio treno”, pensava, “anche oggi si recita la commedia”.
Tornava a casa. Alle sue aritmetiche elementari. Piccole altezze, ma complementari agli esercizi minimi della gioia. L’elettrotreno avrebbe impiegato poco meno di due ore, salvo l’insolenza dei classici imprevisti. Avrebbe voluto spingersi ben oltre, ma detestava il rischio più di quanto avrebbe potuto l’indivisibile consapevolezza sul tenore del proprio orizzonte. Erano le cose semplici a determinarne gli impulsi e la poetica più coriacea e a ricollocarlo nello spazio delle percezioni. Classificare ogni atto con metodo, nel sistema generale delle cose, era il fondamentale. Le novità, come “quelle certe sorprese”, lo avrebbero obbligato a sentire più vita di quella che nel suo sangue era riuscito fin lì ad attribuire. Gli bastava. Si faceva da parte. Non reclamava più di quello che s’era concesso. Di qua fermentava la vita e di là … poco importava. Poche cose, ma semplici, soprattutto ritenute lievemente ingombranti. A destare i suoi interessi, di volta in volta, erano l’incedere variopinto dei suoi gerani e i rotocalchi brutali in tv. Tutto il resto era un espediente di poco conto, come il mondo, là fuori. Tanto avvilente quanto supponente.
Tornava a casa. In fondo, era venerdì e quel minuto di ritardo avrebbe potuto essere speso con l’elogio del Salmo 119.
Sistemò il suo piccolo bagaglio nel vano portaoggetti e, portando la Croce di metallo alla bocca, risalì in un lieve accenno I versetti che plaudevano alle intimità dello spirito: “Aleph beati inmaculati in via qui ambulant in lege Domini. Beati qui custodiunt testimonia eius in toto corde requirunt eum”.
Il “regionale 732”, delle 15 punto zero, attese un’altra manciata di secondi. Alla fine riprese vigore. Dal binario n°1, dalla sua banchisa, alle 15 punto zero due, l’elettrotreno accennò ad una lieve spinta.
Alle moltitudini della “centrale” preferiva il silenzio confortante di quella piccola stazione. In fondo, era un sentimentale. Un metodico, ma col vezzo incoerente dei romantici. Amava la sequenza del ripetersi, all’infinito.
Alle 15 punto trenta, sorrise. Il treno andava allungando sulla tratta, di stazione in stazione, come sempre, fra elettriche palerie e le incontrastate ascensioni appenniniche. Tornava alle sue perfette abitudini e alla perfezione dei propri snodi algebrici, alla somma delle sue parti. Domani avrebbe festeggiato quegli onorati ultimi trent’anni. Lo avrebbe evidenziato nel suo particolare taccuino con una “X”. Avrebbe calcolato quanti anni ancora alla meritata quiescenza. La sua natura mite lo avrebbe indotto all’immodestia. Alla fine, avrebbe concluso che tutto è solo una questione di tempo, come sul treno, coincidenze e ritardi non previsti, inclusi. Tutto ciò bastava. Riteneva d’essere fortunato e concedersi altro, al punto in cui si trovava, lo avrebbe trovato indecoroso oltre che pesantemente oneroso. Si, tutto ciò gli dava la misura del compendio.
Puntualmente, come sempre, alle 16 punto zero cambiò di posto. Due vetture avanti. Logica e metodo. Quel ripetersi all’infinito … decise tra “donna in affari” e “qualunque con quotidiano sportivo”. Poco male. Ancora un’ora. Verso casa.
Il treno giunse in stazione, in orario. Il macchinista recuperò quel minuto, tra una fermata e una lieve spinta. Dalla piccola stazione al suo centro gravitazionale, pochi passi. Il borgo, in fondo, era percorribile in un paio di minuti.
Era a casa. La retrovia delle assenze. Nella somma delle sue parti. Fra le sue parti.
Aprì e richiuse la porta. Tolse le Church’s e calzò i sandali. Dall’andito solo due passi. Un attimo e gusciò tra le penombre dello studio. Sulla savonarola poggiò il piccolo bagaglio. Fece scattare la serratura e aprì la valigetta di pelle.
Sorrise.
Nera. Fredda. Cromata.
Irreversibile, incorruttibile bellezza.
Tra castello, tacca e mirino, statica ferocia.
Dal tamburo scaricò quattro colpi. Gli altri due, il giorno prima, onorarono il “cliente”. Contratto negoziato.
Irrimediabilmente evaso.
Il calibro gli spaccó anima e occipite con la stessa veemenza con cui esaltava l’Onnipotente nei vesperi.
Richiuse lo studio, con delicatezza.
Era a casa, tecnicamente felice.
Vito Benicio Zingales