Un insegnante di latino del liceo di una piccola città ungherese decide di concedersi un periodo di riposo in una stazione termale. È luogo che ben conosce e che in passato gli aveva garantito conforto e sollievo. Stavolta, ventott’anni dopo, non sarà così: pur trovandosi circondato da oggetti familiari, nella camera di sempre, tutto lo infastidisce, le lenzuola umidicce, il maltempo, l’assenza di un calzascarpe, in particolare. Lo cerca in modo spasmodico ovunque prima di arrendersi all’evidenza che se la camera ne è priva è perché è diventato obsoleto, il tempo è -dolorosamente – trascorso, le mode sono cambiate.
Il professore langue. Nemmeno le passeggiate nel verde gli portano più la consolazione sperata perché sono i bilanci di tutta un’esistenza a tenere banco nel suo animo. Sono prigioniero della mia età, del mio aspetto fisico; per così dire, sono schiavo del mio stile di vita e delle circostanze. […] Non mi compiaccio di niente. È una cosa invereconda, ma devo scriverla: mi sento grande come le montagne. Come l’intero panorama che ho di fronte agli occhi. E mi stupisce che quel che vedo non riesca ad appagarmi, confessa a se stesso.
In questo spreco di splendore, l’unica fonte di una transitoria serenità sono i momenti in cui si ferma per annotare in un diario – con straordinario nitore – ogni moto che agita il suo animo.
Un giorno, sceso in sala da pranzo, trova il suo posto di sempre occupato da un altro avventore, circostanza che suscita la prima, vera reazione nel torpore emotivo in cui vive. Oltremodo infastidito, decide di affrontarlo verbalmente, pur riconoscendo di provare quasi repulsione per quell’uomo malaticcio, sporco e trascurato che dice di chiamarsi Timár, di fare il segretario a Vienna e che da presenza invadente e mal sopportata, si trasforma, in un inatteso rovesciamento narrativo, in prezioso interlocutore. Intesserà con lui dialoghi sul senso della vita, sulla gioventù che non ne vuole sapere di contagiarsi con le amarezze proprie degli adulti, con la solitudine: loro, i giovani e belli, i sani, cercano di proteggersi come possono, lo ammonisce Timár una sera ed è il seme di un presagio che il protagonista non può ora cogliere. Affascinato dalla verbosità affabulatoria del segretario, per mancanza di esperienza di vita ne cadrà preda. Spinto dalle sue bontà d’animo e ingenuità gli elargirà un corposo aiuto economico che non gli verrà restituito.
Altri approfitteranno poi del suo buon cuore: pur di porre rimedio alla sua solitudine, il professore si renderà disponibile ad aprire i cordoni della borsa, rimettendoci sempre.
Il fallimento della vacanza, il poco sollievo che gli porta, lasciano spazio al rientro in città, alle movenze note, le abitudini consolidate: È magnifico essere di nuovo a casa. In quale altro luogo potrei trovare una simile pace se non nella mia stanza? Ecco ciò che serve a una persona anziana. Sono vecchio, è inutile negarlo. Il silenzio, la mia camera, la mia poltrona, questo orologio, la collezione di pipe, il setaccio per il tabacco, gli scaffali pieni di libri – molti dei quali non ho ancora letto… la strada silenziosa e gli ippocastani davanti alla finestra, ecco il mio mondo. È quello che ho ricevuto in sorte. Va bene così. Non chiedo altro. Sono solo, e va bene anche questo. C’è pace intorno a me, ci sarà pace dentro di me.
È illusoria, questa sensazione, perché al lavoro ci sarà ad attenderlo una novità, ancora indefinibile negli esiti: la classe in cui si appresta ad insegnare quest’anno è mista. Del tutto impreparato a rapportarsi con le ragazze, il professore accoglie la notizia con spaesamento e apprensione.
Le studentesse, scoprirà, sono serie e motivate, forse più dei maschi, che l’hanno soprannominato il Tricheco, per via dei baffi spioventi. E bravo, anzi ottimo studente si rivela poi tale Madàr a cui l’insegnante si affeziona al punto di regalargli, vista la palese indigenza del ragazzo, un necessario, caldo cappotto.
È in questo rapporto di mentore e allievo che si insinua la crepa. Il professore ha un dubbio, che diventa poi certezza: il ragazzo coltiva una relazione amorosa con Cserey, una studentessa le cui grazie, poche invero, avevano fatto breccia anche nell’insegnante al punto da trasfigurare questo suo platonico primo amore in donna angelicata e occupargli la mente per tutto il giorno, spingerlo a tagliarsi la barba, a spendere per un abito nuovo, di colore insolitamente chiaro.
Da un biglietto sequestrato in classe il professore viene a sapere che l’alunno chiama la ragazza Bebi. Da questo momento, infastidito, si appropria di quel vezzeggiativo ingaggiando una lunga schermaglia tutta mentale con il giovanissimo rivale, che lo trascinerà nel vortice di una ossessione malata: e che avrà esiti imprevisti, tragicamente drammatici.
Aveva solo ventott’anni Sándor Márai quando scrisse Bébi, il primo amore (portato in Italia da Adelphi nella traduzione di Laura Sgarioto), ma già presenta, pur con tutti i limiti di una stesura ancora ingenua e vagamente sbilanciata tra lo svolgersi talora lento di due parti chiaramente separate, molte della tematiche dei suoi romanzi successivi, il magnifico Le braci in primis.
Già è chiara qui la cifra che renderà la sua scrittura riconoscibile e unica: la profonda, finissima analisi dell’animo umano sorretta da una narrazione che fin da questa prima opera si preannuncia magistrale. Siamo già in presenza di tutta la coscienza individuale del tempo trascorso, irrecuperabile, sovrapposta come carta velina sulla analoga fine di un impero, quello Austroungarico, che si percepisce sullo sfondo.
Ritroviamo il difficile equilibrio tra la precisione di una descrizione accurata, profondissima, dei mille moti che si agitano al solo interno e la voluta vaghezza nell’elenco di un quotidiano fatto di nulla.
La forma narrativa preferita dallo scrittore ungherese è ormai tutta qui in un primo, riuscito primo abbozzo: il monologo lungo, introflesso, crea tensione e aspettativa fino all’epilogo inatteso, la banalità dell’esistenza scandita da ordinari rituali individuali cela sfaccettature sottotraccia, devastanti e intense che, suggerisce Márai senza dire, mettendoci in guardia, potrebbero appartenere a ciascuno di noi. Tragicamente.
Anna Vallerugo