Il macellaio (Adelphi, 2019, pp. 98, euro 10), l’esordio narrativo del 1924 di Sándor Márai – scrittore ungherese naturalizzato americano che soggiornò per molti anni nella nostra Salerno -, è una lucida e spietata discesa nei meandri di un uomo senza qualità, del tutto privo però, quello di Márai, della sovrabbondanza intellettuale del protagonista di Musil; una discesa nella mente ottusa di un ragazzo che ha come unica vocazione quella di squartare buoi e non vede differenza tra il mestiere di macellaio e quello del soldato. Un uomo che, finita la guerra – la prima mondiale – in cui si distingue per ferocia, torna alla realtà, a Berlino, e non avendo altri stimoli si trasforma in boia: non più macellaio, ma assassino seriale di prostitute. Sono pagine che, in alcuni punti, ci fanno istintivamente chiudere gli occhi come davanti a una scena truculenta di un film, perché Márai è un maestro nel rendere vivi i luoghi e i suoi personaggi, tanto da farceli seguire senza fiato fino alla fine, fino cioè al punto in cui ce ne chiediamo il senso e non ne riceviamo risposta, perché anche quest’uomo senza qualità fa parte di noi – lo sappiamo bene dai fatti di cronaca, da quella banalità del Male che non ha nome e non ha un perché. Anche se in questo caso, andando a ritroso, possiamo trovare il bandolo della matassa nella circostanza del concepimento di Otto Schwarz, la sera in cui i genitori assistono a una tragedia all’interno del circo che ha fatto tappa nella «cittadina del margraviato del Brandeburgo, nel distretto di Teltow, non lontano da Berlino». Il numero finale prevede l’esibizione di quattro orsi polari ammaestrati. Uno di questi, uno splendido esemplare di orsa bianca, stritola tra le sue fauci la testa di Miss Bellini, la domatrice. Quella notte, dopo vent’anni di tentativi, nasce Otto, ma il parto costa la vita alla madre. Non entriamo in interpretazioni psicanalitiche.
Cresciuto senza particolari problemi e privo di interessi, florido e svogliato, Otto decide di andare a Berlino per guadagnarsi da vivere come macellaio. Il padre l’accompagna nei budelli proletari della città. Seguiamo le parole di Márai, la sua descrizione:
«Sin dai loro primi passi erano stati collocati nell’asfittica area urbana abitata dalle masse popolari, e non videro mai, neppure in seguito, la Berlino splendente, imperiosa, il volto mondano e presentabile della città. Il tram li portò in vie nelle quali si udiva lo stridore meccanico di una vita sradicata, della miseria sistematizzata; fumo, nebbia e sporcizia aleggiavano in nuvole scure intorno alle frotte di esseri umani che le popolavano, il brusio crepitante era il baccano delle contrattazioni di una perenne fiera di robivecchi, di un’affollata svendita; nelle botteghe e agli angoli delle strade già di prima mattina tutti vendevano di tutto, chi le proprie braccia, chi le scarpe che aveva ai piedi, altri ancora, con misteriosi sussurri, una “rosetta” rubata o una voluttà proibita, e mobili tarlati esposti sul marciapiede; e sotto il marciapiede, in maniera percepibile, come funghi dell’oscurità che, agglomerandosi in una massa, con la loro forza vitale fanno gonfiare e talvolta addirittura incrinano l’asfalto dell’immagine ordinata del mondo, fremevano un’altra vita e un’altra società, organicamente aderenti a quella superiore, parte di essa, eppure diverse e regolate da leggi diverse, come il cancro occulto di un organismo malato di peccato. E tutto questo urlava e voleva vivere». Sembra di essere catapultati tra le immagini di Metropolis di Fritz Lang, solo di qualche anno più tardo, del 1927. L’alienazione di quel mondo, certo più ordinato e scandito, è la stessa che scorgiamo negli occhi e nel cuore di Otto. Non dimentichiamo che Lang, nel 1931, girò anche M – Il mostro di Dusseldorf; ma Otto, a differenza del mostro, non è attanagliato dalle voci che gli ingiungono di uccidere, non si sente inseguito da nessuno, tantomeno da sé stesso. Otto ha un volto ancor più sconvolgente, perché è neutro e liscio come quello di una maschera bianca e immobile. Otto Schwarz non si chiede niente, non fugge da niente. Sente solo la necessità di uccidere. Non per sopravvivenza, come una bestia, né per i soprusi subiti, come l’orsa ammaestrata che si ribella. Per noia e mancanza di prospettiva, perché svolge una vita da bruto. «Per ogni singolo caso ammise la propria responsabilità, senza alcuna esitazione, anzi con piena consapevolezza; quando invece il procuratore gli chiese se si sentisse colpevole, con grande e sincero stupore rispose di no».
Non fa sbavature, Márai, usa l’obiettività come un coltello. Per colpirci a morte.