Più che un romanzo è un capolavoro: Il colibrì di Sandro Veronesi (La Nave di Teseo) è una chiara e forte accusa a una media borghesia che ha fatto più vittime di qualunque guerra. Il conformismo, lo stare fermi a guardare il mondo mentre lo bisognerebbe ascoltare, le ali immobili dei nostri sogni intrappolati nei “palazzi eccetera” emblema del nostro anonimato esistenziale. E per anonimato non si intenda la mancanza di celebrità, ma l’assenza di vita, l’accettare tutto così com’è che, invece, se fossimo davvero uomini dovremmo combattere. Non sono critico letterario da trame – da sempre preferisco definirmi un estensore di recensioni emotive – ma attraverso il protagonista Marco Carrera possiamo vederci tutti come in uno specchio di inchiostro. Veronesi immortala la nostra “fuga da fermo” in quel “caos calmo” che è diventata la vita: la nostra. Nei confronti del protagonista si prova odio (perché ci ritrae tutti) e compassione (perché facciamo finta che non parli di noi). Ed è così: sopravviviamo perché facciamo finta.
Sandro Veronesi è capace di andare oltre: “oltre il giardino” che non è solo un film, ma il nostro nasconderci e mimetizzarci nel quotidiano. Non abbiamo più nemmeno il coraggio di sbattere le ali per paura di far rumore. Continuiamo a essere degli “sfiorati”, esuli di un mondo che ci tocca da vicino ma che facciamo finta di ignorare. Un romanzo che ha il (dis)sapore della vita, dove tentiamo ancora, come scrittori e come scrittori, di sfondare porte che non ci accorgiamo essere già aperte. Ed è questo il problema, il vero problema che ci affligge senza che ne accorgiamo: assimilare tutto, senza imparare nulla. Come dei criceti che continuano a girare sulla ruota della loro gabbietta. Per questo la frase, posta a esergo del romanzo, di Samuel Beckett (tratta da L’innominabile) ci apre l’ingresso di un romanzo che più che un libro è un dono: “Non posso continuare. Continuerò”.
Oggi siamo ancora vittime da evento postraumatico: crediamo che una targhetta o un biglietto da visita ci protegga da ogni naufragio. Ma siano come “navi in mare” che trovano i porti chiusi, che non trovano aiuto in una contemporaneità dove l’individualismo è diventato orrore di massa: non esiste più l’individualismo ad esempio rinascimentale ma quello di un MediaEvo che ci porta, inconsapevoli, ad essere dei numeri: schiavi non di catene ma di museruole mentali, prigionieri di un codice a barre che ha la stessa nefandezza dei tatuaggi nazisti. Una dittatura democratica impossibile da sconfiggere perché non ci rende schiavi con le catene, ma con i piaceri. E chi è pronto a prendere le armi contro un mare di divertimenti? L’unico tentativo possibile è una “fuga dalla libertà” di frommiana memoria: come a pagina 329 quando Veronesi scrive un passaggio di dieci righe che sono tra le migliori della letteratura italiana: a voi lettori scoprirle.
Ma Il colibrì è anche “il guerriero del Sole”, come lo ribattezzarono gli Atzechi perché “i lupi non uccidono i cervi sfortunati, i lupi uccidono i cervi deboli”.
Sandro Veronesi – attraverso cinquant’anni di Storia Italiana- ci racconta la nostra devoluzione: altro che “austerity” degli anni ’70, oggi viviamo una austerity esistenziale. Veronesi è bravissimo nel raccontarci tutto questo con il respiro della Grande Letteratura: certo potrà sarà indigesto ai più, perché a nessuno piace essere ritratto in maniera spietata, ma è un cazzo di capolavoro. Veronesi è eccezionale anche nella onomastica emotiva, nel trovare nomi e cognomi che riassumono vite intere (in questo ricorda un Piero Chiara postmoderno): Veronesi si dimostra un grande scrittore anche nel descrivere luoghi e paesaggi emotivi. Ricorda il miglior Albinati, quello de “La scuola cattolica”, perché denuncia come il nuovo fascismo abbia fatto irruzione tra i “palazzi eccetera” (definizione geniale) senza fare neanche troppo rumore. Siamo tutti “colibrì” ma in tutti noi si nasconde “un pettirosso da combattimento”. Certo non è facile, però si può.
Il colibrì di Sandro Veronesi – malgrado le paginate di incenso dei maggiori addetti ai favori della critica italiana- merita il Premio Strega, insieme a Matteo Cavezzali di Nero di inferno (Mondadori) e Dolcissima abitudine di Alberto Schiavone: sembrano diversi, ma sono accomunati dalla descrizione di chi si sente e vive da “amico fragile”.
Gian Paolo Serino